Una casa per Buddy

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In una notte ventosa di molto tempo tempo fa, la neve arrivò sul piccolo borgo di New Even proprio quando un figlio stava salutando il suo papà in partenza.

Al mattino, grossi fiocchi continuarono a scendere senza sosta ricoprendo tetti, strade e persone. Il ragazzo dei giornali non osò strillare le notizie del giorno per paura che gli si gelasse l’ugola. Con saggezza si limitò ad allungare la copia dell’Even Gazzette ai passanti che si stropicciavano le mani guantate finché l’odore zuccherino delle ciambelle non lo richiamò nel negozio di Mr. Weston. Il ragazzo lasciò i giornali incustoditi sui gradini dell’ingresso e qualcuno pensò che non sarebbe stato un gran danno prenderne uno in prestito per trovare quel che cercava. 

Cosa cercasse Jacob Wells non avrebbe saputo dirlo con esattezza.
Quel mattino si era svegliato con una domanda urgente: Come nascono i miracoli?
L’aveva chiesto alla madre mentre faceva colazione e lei aveva risposto: «Nessuno lo sa, Jake.»La risposta, ahimè, non lo aveva convinto ed era uscito per cercarne una più di suo gusto. Nascosto in un cappotto troppo grande per i suoi otto anni con una sciarpa troppo lunga avvolta al collo (Nonna Margaret gli confezionava la maggior parte dei vestiti e nel prendere le misure era particolarmente previdente) camminò per le vie della cittadina senza una meta precisa. Ogni strada era addobbata con ghirlande e bacche di agrifoglio tonde e rosse, pupazzi di neve spuntavano come i funghi in autunno nelle aiuole, ai bordi dei marciapiedi e sui davanzali delle finestre, le vetrine erano illuminate, colme di giochi e leccornie, ma quel che amava Jake era il profumo della cannella e dei fuochi accesi che riempiva l’aria.

Jake pensò a nonno James che trovava sempre le risposte sul giornale – in realtà suo nonno trovava più problemi che soluzioni sulle pagine stampate, ma questo Jake non lo sapeva – così quando vide i giornali abbandonati sui gradini credette in un segno del destino.
Col giornale sotto braccio si allontanò a passo svelto dal negozio di Mr. Weston, svoltò l’angolo e trovò riparo sotto un arco in pietra che portava a un viottolo tortuoso del borgo antico.

Tra tutte quelle parole difficili scritte fitte fitte Jake non trovò nulla che gli potesse spiegare come nasce un miracolo; un articolo però catturò la sua attenzione:

Il sogno distrutto di Mrs Willoby
Gli eredi chiuderanno il canile per vendere la proprietà della defunta […] se non troveranno una soluzione alternativa i cani verranno soppressi.”

Jake non conosceva il significato di sopprimere eppure quella parola gli si conficcò come una spina nel petto, quel suono subdolo e violento non prometteva nulla di buono.

Il campanile rintoccò dodici volte, doveva tornare a casa se non voleva essere punito.
Passò dal parco e si soffermò ad ammirare l’abete che giganteggiava al centro della piazza, acceso come un faro sotto il cielo bianco latte dalle sfumature cineree.
Il nuovo sindaco aveva chiesto ai suoi concittadini di confezionare delle decorazioni per l’albero di Natale. Tra i nastri d’argento e oro, che dalla cima ricadevano come cascatelle d’acqua fino alla base, c’erano sfere di vetro dipinte a mano dai ragazzi della scuola; c’erano omini di pan di zenzero, piccole bambole in stoffa e pendenti in legno ritraevano elfi, gnomi, slitte, renne, stelle e cavalli a dondolo tra le piccole luci bianche posizionate come lucciole in una notte d’estate.

Era davvero molto in ritardo! Ritrovò il ragazzo dei giornali fermo come un soldatino di legno con i giornali sotto braccio al posto del fucile e un grugno sul viso, gli consegnò il giornale sgualcito prima di correre verso casa non badando alle parole che lo seguirono per un po’.

La casa della famiglia Wells era diversa da quelle vicine, occupava un angolo in fondo alla via, circondata da un piccolo giardino recintato, spiccava per i muri con i mattoni a vista, il tetto a punta e il comignolo sbilenco; secondo il papà era la casa a pendere da un lato e il comignolo dritto, la madre ribatteva che era una questione di punti di vista. Dopo anni era ancora in piedi e solo questo importava ai Wells.

Jake superò il cancelletto e raggiunse le scale, ruzzolò all’indietro cadendo con un sonoro tonfo a terra. Era inciampato su qualcosa che immediatamente dopo gli appoggiò due zampe bagnate sulle gambe. Sembrava felice, pur essendo bagnato e tremante.
Jake prese il cucciolo scodinzolante in braccio, non aveva un collare e nessuno lo stava cercando.
Si guardarono. Quel cucciolo entrò nella vita del bambino dalla porta principale e Jake lo chiamò Buddy.

«ASSOLUTAMENTE NO, JAKE!» sbraitò la madre poco dopo «Ma cosa ti salta in testa? Non c’è nemmeno tuo padre, te ne sei accorto? Sarebbe qui…» prese fiato, «Sarebbe qui per Natale se potessimo permetterci di sfamare un’altra bocca.»

Buddy lappava il latte dalla ciotola per i cereali di Jake.

«Mamma, dove potrebbe andare?»

«Lo porterai al canile e loro sapranno cosa fare» rispose la madre.

«Ma non hai letto sul giornale? Buddy lo reprimeranno!» disse Jake alzandosi dalla sedia mentre Buddy alzava la testa dal suo tozzo di pane secco per guardarlo.

«Chiusa la discussione.»

«Dammi un solo giorno e, se non troverò nessuno che lo voglia adottare, lo porterò al canile.»

Jake riuscì così a strapparle il permesso di tenerlo, e la sua promessa gli si accomodò al centro del petto come un macigno.
Quella notte, Jake – al contrario di Buddy – ebbe difficoltà ad addormentarsi. Nel silenzio udì un soffio leggero, poco dopo un altro. Era il respiro di Buddy e lui pensò che avrebbe voluto addormentarsi ogni sera così.

Il giorno dopo Jake e Buddy uscirono alla ricerca di un potenziale padrone, nessuno però sembrava adatto quanto Jake per il suo nuovo amico. Il tempo passò e Jake sapeva che non poteva tornare a casa con Buddy o lo avrebbero portato al canile.
Era rimasto un ultimo atto disperato. Doveva tentare: avrebbe bussato alla porta del solitario e burbero Mr Payne.

Mr Payne era un ricco proprietario terriero che amava dire, nelle rare conversazioni che lo vedevano coinvolto, che la miglior compagnia di cui potesse godere era se stesso. Una tragedia gli aveva portato via moglie e figlia in un solo giorno tanti anni prima e lui aveva escluso il resto del mondo dalla sua vita. L’unica persona che poteva dire di conoscerlo era Fill Cunningham, il suo tuttofare, che viveva nella casa del guardiano. Un uomo che, come Mr Payne, non aveva una famiglia da cui tornare.

In città Fill soleva dire: «Povero Mr. Payne» e, scuotendo la testa dopo essersi tolto il cappello, aggiungeva «Vive arroccato lassù tra quelle mura come fosse un museo. Nulla può essere toccato, nulla cambiato.»

Jake seguì il sentiero su per la collina verso la tenuta solitaria, vide tracce di pneumatici sulla neve fresca e dubitò che lo avrebbe trovato a casa, ma continuò a camminare costeggiando il muro a protezione della proprietà fino all’ingresso principale. Un alto cancello nero dalle guglie appuntite e ricoperte di neve come una minacciosa catena montuosa in miniatura si stagliò davanti al bambino. Un cartello avvertiva i visitatori che all’interno c’era qualcuno pronto a sparare a vista su chiunque fosse entrato senza invito. Jake deglutì indietreggiando di un paio di passi come se questo potesse metterlo in salvo da proiettili vaganti. Espirava nuvole di vapore che Buddy cercava di prendere con la zampa e aspettò finché qualcuno non si palesò.

Fill uscì per controllare la macchina e aprire il cancello. Jake superò il cancello e si nascose dietro un arbusto vicino per prendere tempo e decidere cosa fare. La porta d’ingresso era aperta e  poco dopo ne uscì un uomo coperto da capo a piedi che però Jake riconobbe come il medico del paese, il dottor Cooper, seguito da un Mr. Payne in vestaglia con una pipa in mano e le spalle ricurve, come se dovesse portare tutto il peso del mondo.

«Non c’è motivo di preoccuparsi fino all’esito degli esami Charles, sono solo ipotesi.» disse Mr Cooper con una pacca amichevole sulla spalla cadente di Mr. Payne.

«Ipotesi fatte sulla mia pelle, William. Ci vorrebbe un miracolo» rispose Mr. Payne tirando una profonda boccata dalla pipa.

«Andrà tutto bene. Buon Natale, Charles» si congedò il medico raggiungendo la macchina in cui Fill lo aspettava.

Mr. Payne si limitò ad annuire e attese che la macchina sparisse alla vista. La stessa idea la ebbe Jake, aspettare, ma Buddy fu di diverso avviso e balzò fuori dal nascondiglio per acciuffare un uccellino, che però fu più veloce di lui. Jake inseguì Buddy e quando lo riacciuffò si trovò sotto il naso adunco e sottile del signor Payne. Ogni ruga di quel viso emaciato si contrasse in un’espressione di estremo disappunto.

«Temo dovervi invitare a lasciare la mia proprietà, ADESSO» tuonò il proprietario di casa.

«Salve Mr. Payne, signore, sono Jake ehm Jacob» sospirò per calmarsi e proseguì «Jacob Wells e lui è Buddy, mi dia un minuto per favore.»

«Il primo di quelli che mi restano. Troppo, direi» e così detto entrò in casa sbattendo la porta. Il batacchio continuò a oscillare come a voler chiedere scusa per il comportamento del suo padrone.

Jake allora parlò attraverso la porta, sperando che ci fosse qualcuno in ascolto dall’altra parte. Raccontò le sue ultime ventiquattro ore, quanto amasse Buddy e le sorti del canile. Silenzio.
Chiese la stessa cortesia che aveva chiesto alla madre, con la stessa promessa di portarlo via di lì il giorno dopo.
La porta si aprì quel tanto che bastava a far uscire un po’ di oscurità e il naso di Mr. Payne.

«Perché dovrei farlo?» chiese al piccolo intruso.

«Perché nessuno dovrebbe essere solo a Natale» rispose Jake.

Per la seconda volta Jake riuscì a ottenere un posto caldo per Buddy in cui trascorrere la notte. Per la seconda volta pensò ad una soluzione e si ritrovò con più dubbi che risposte.

La vigilia di Natale arrivò sotto un cielo limpido come un lago ghiacciato capovolto, Jake tornò in strada alla ricerca di un padrone per Buddy e, come il giorno prima, non trovò nessuno disposto o adatto a prendersi cura del suo amico.
Andò da Mr Payne e vide la macchina in partenza fuori dal cancello.
Fill lo salutò con un cenno del capo e andò a chiudere i lucchetti. Jake si avvicinò al finestrino e Buddy balzò per salutarlo festante.

«Salve Mr. Payne, dove sta andando?»

«Hai trovato qualcuno per Buddy?» ribatté Mr Payne.

«No, signore» rispose avvilito Jake. Aveva finito le parole e quelle che avrebbe potuto dire gli restarono incastrate sotto il macigno della promessa.

Fill risalì al posto di guida.

«Al canile, Fill» ordinò Mr. Payne.

«Posso venire con lei?» chiese Jake prendendo posto accanto a Mr. Payne senza attendere la risposta.

Jake sentì di aver tradito la fiducia del suo piccolo amico. Non aveva fatto abbastanza per lui, aveva giudicato inadatte le poche persone disposte ad adottarlo solo perché avrebbe voluto tenerlo con sé. Era stato egoista e adesso Buddy ne avrebbe pagato le conseguenze. 
Per tutto il viaggio Buddy giocò con Jake sotto lo sguardo di un adulto indifferente. L’ombra affusolata di Mr Payne si stagliava sui due amici come una condanna. Jake coccolò Buddy per quel momento e per i momenti futuri, non voleva fargli capire che di lì a poco avrebbero dovuto dirsi addio.

Al canile furono accolti dai latrati dei residenti dietro la griglia di ferro e dal sorriso tirato di una signora che con un urlo provava a zittire i cani. Non era rimasto niente delle cure amorevoli della signora Willoby. 
La neve mista a fango attentava alle gambe dei visitatori e i cani erano inzaccherati fino alla punta delle orecchie. Tutti loro, inconsapevoli dell’infausto destino che li attendeva, si accalcavano verso Jake in cerca di attenzioni. Jake strinse a sé Buddy, ma la signora, dalle fattezze di un armadio, glielo strappò dalle mani senza alcuna compassione e incurante dei guaiti di Buddy, che invece riempivano le orecchie di Jake, continuò a parlare con Mr. Payne.

«La prego, me lo faccia salutare» chiese Jake allungando le braccia verso Buddy che provava a divincolarsi dalla presa.

«Credimi, è meglio così piccolo» rispose la donna prima di andar via con Buddy che abbaiava e guaiva in toni sempre più acuti.

Mr. Payne fece cenno a Jake di seguirlo verso la macchina soddisfatto per essersi tolto da quell’impiccio. In lontananza Buddy che richiamava ancora il suo amico.
Jake si arrestò, ormai gonfio di tristezza: «È vero quel che si dice su di lei!» urlò con le lacrime che non riusciva più a trattenere «Pensavo che potesse fare un piccolo miracolo e invece non può! Non ne è capace perché non ha un cuore!»
Jake superò la macchina ferma, in attesa che salisse Mr Payne, e corse verso casa . Tutte quelle luci e quelle decorazioni che gli avevano sempre dato gioia adesso non erano altro che cose. Anche il profumo della cannella e dei fuochi accesi non c’era più. Per la prima volta vide nella neve se stesso come un immenso manto di solitudine e attesa.

La casa in mattoni che sbuffava dal comignolo sbilenco, pareva essersi accasciata sulle propria fondamenta per quel Natale che di magico non aveva più nulla. Jake rifiutò la cena fingendo un mal di testa e lasciò i suoi genitori parlare al telefono rifugiandosi nella sua camera sotto il tetto. Si stese sul letto ancora vestito, pensando a Buddy impaurito e solo in quel posto ormai dimenticato e morente senza nemmeno sapere perché non poteva più stare con Jake. E si addormentò sfinito.

Arrivò la mattina di Natale e come ogni anno la mamma lo svegliò con la colazione più golosa e ricca dell’anno ma Jake la assaggiò appena. 
Sotto l’albero trovò un regalo: il treno in legno, dipinto a mano, definito fin nei minimi particolari, un modello in scala identico all’originale. Aveva anche le ruote mobili. Jake non avrebbe potuto chiedere giocattolo migliore, eppure non riuscì a esser felice.

«Devo uscire, non starò via a lungo, mamma» disse Jake scendendo di corsa le scale con un vecchio peluche in mano.

«Ma è Natale Jake! Dove vuoi andare?»

«Ho dimenticato una cosa» disse, infilandosi il secondo stivale per poi aggrapparsi all’appendiabiti e recuperare cappello e sciarpa che sistemò quando era già fuori casa per la via del canile. Il peluche era per Buddy. Voleva fargli sapere che non l’aveva abbandonato, che non l’avrebbe mai dimenticato.
Al suo arrivo nessun latrato. Non un solo cane dietro la recinzione. Erano rimaste solo bozze delle impronte catturate nella neve impiastricciata di fango vicino a piccole pozze d’acqua. Tre uomini nerboruti stavano caricando degli scatoloni su un furgone. Quel posto in poche ore era diventato il fantasma di se stesso con ancora i ricordi ad aggirarsi come ombre per non aver avuto il tempo di essere assorbiti.

«Mi scusi signore, dove sono tutti i cani?» chiese Jake all’uomo che stava sistemando uno scatolone sigillato sul retro del furgone in modo da non farlo cadere.

«Li hanno portati via stamattina presto. Ora spostati, lasciaci lavorare ragazzo.»

Jake si tolse il berretto lasciando scoperti i folti capelli ritti in testa e tornò a casa col suo peluche, pronto per una punizione.

«Vai a riordinare la tua camera Jake, sembra una giungla» lo rimbrottò la mamma appena entrato.

Jake non si oppose e salì in camera sua. Aprì la porta col cuore gonfio di tristezza e lasciò cadere il peluche sulla soglia.
«Sorpresa!» esclamò il papà seduto sul letto. Dalle sue braccia spuntò Buddy che si unì all’abbraccio di Jake col padre. La mamma sul ciglio della porta li guardava.
Jake non era stato mai così felice, prese Buddy per non lasciarlo andare via mai più e gli diede il suo peluche come regalo di Natale.
«Grazie mamma» disse abbracciando anche lei mentre Buddy strattonava il suo nuovo giocattolo come se ne valesse della vita stessa.
Fu il padre a interrompere quel momento perfetto. «Andiamo, ci aspettano per pranzo» annunciò scendendo le scale.
«Chi?» chiese Jake già pronto a chiedere se Buddy potesse andare con loro, ovunque fossero diretti.
«Oh, lo scoprirai presto» disse la mamma sorridente. 
Guardando la sua famiglia in quella loro piccola dimora e il nuovo arrivato, Jake si sentì completo. Andò a prendere il suo nuovo giocattolo che adesso trovava stupendo, e lo infilò in tasca. Col trenino e Buddy poteva andare verso qualunque avventura.
In strada ad aspettarli c’era Fill con la macchina del signor Payne. Alcuni vicini si erano affacciati curiosi e la famiglia Wells montò in macchina con due cesti di vivande da portare al padrone di casa.

Arrivarono nella tenuta, questa volta come ospiti graditi, Fill fece loro strada per raggiungere il giardino sul retro dove ad attenderli c’era un Mr. Payne vestito di tutto punto con accanto un labrador appesantito dagli anni, quasi addormentato.
«Ben arrivati, venite pure» disse loro fumando la pipa. Jake si avvicinò per scoprire che l’odore della pipa era insopportabile, ma vide anche altro: nel giardino fino al limitar del boschetto c’erano tutti i cani del canile. Erano liberi e Mr Payne con un fugace sorriso spiegò che avrebbe provveduto a far costruire delle cucce degne di essere chiamate tali. Jake non sapeva ancora spiegarsi come nascono i miracoli ma era sicuro di riconoscerne uno, e quello era un miracolo.
«Tuo padre mi ha garantito la tua collaborazione» gli disse Mr Payne facendo strada per entrare in casa.
«Certamente Signore!» rispose Jake, scoprendo di avere molta fame mentre seguiva Mr Payne con i suoi genitori.
«Ottimo. Pensiamo al Natale adesso, ci aspetta tanto lavoro signorino.»

Jake tagliò la strada a Mr Payne nel corridoio che portava alla sala da pranzo e lo abbracciò: «Buon Natale Mr. Payne» disse affondando il suo viso nel maglione dell’uomo.
Mr. Payne si irrigidì come se fosse stato colpito da un secchio d’acqua ghiacciata. Jake si sciolse dall’abbraccio e Mr Payne gli accarezzò la testa annuendo: «Buon Natale anche a te, Jake.»

E tutto finì così a New Even, in quella grande casa che non sentiva il calore umano da anni, ma Mr. Payne aveva un’ultima cosa da dire a Jake: «Fammi il favore di pettinare quei capelli la prossima volta, ragazzo.»
E tutti scoppiarono in una fragorosa risata. 

A Christmas Tale: il contest di Natale dedicato agli scrittori


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Lo sappiamo, manca ancora tanto a Natale, ma noi in redazione siamo già in mood natalizio


Quale miglior modo di aspettare il Natale se non leggendo un racconto a tema? Se anche tu ami follemente il Natale il nostro #edichristmascontest è l’occasione giusta per te!


Le regole per partecipare sono semplici

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E poi? Che succede?

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Dai, dai! Hai un mese di tempo per consegnarci il tuo racconto

Freebie “Regali da vivere”

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Siete mai stati in Costiera Amalfitana? Vi piacerebbe andarci? Nelle nostre storie su Instagram avete provato ad indovinare dov’è ambientato Regali da vivere, il nuovo romanzo di @chiaradmscrittrice. Per ringraziarvi abbiamo deciso di farvi leggere in anteprima il primo capitolo “AmaMi”󠀠.
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Come partecipare? È facilissimo! 󠀠
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Legge sul Libro: cosa cambia?

Ieri (25 marzo 2020) è entrata in vigore la Legge Levi, con l’approvazione all’unanimità del Senato. Tante le novità introdotte che avrebbero come scopo la promozione della lettura ma soprattutto la garanzia del pluralismo dell’offerta. Ma molte sono anche le polemiche sulle manovre previste. Ecco cosa prevede la legge punto per punto:

1. Istituzione di un fondo di 4.350.000 euro annui per la diffusione della lettura; 
2. Stanziamento di fondi per aiutare e promuovere la lettura nelle biblioteche e nelle scuole
3. Nomina della “Capitale italiana del libro” sulla base dei progetti presentati dalle città che si candidano per questo titolo;
4. Avvio della “Carta della cultura” del valore di 100 Euro annui con cui lo Stato contribuirà alle spese per l’acquisto di libri da parte delle famiglie economicamente svantaggiate;
5. Abbassamento del massimo di sconto applicabile sui libri dal 15 al 5% (vale per librerie e e-commerce; 
6. Istituzione di un Albo delle librerie di qualità;
7. Incentivi fiscali per le librerie; 
8. Taglio al bonus cultura: questa decisione sembrerebbe in contraddizione con l’intento della Legge. Il bonus, infatti, da quando è stato istituito ha aiutato migliaia di giovani a comprare libri. 

Voglio concentrarmi soprattutto sul punto più controverso, quello che riguarda la scontistica. 

I primi a levarsi contro questo limite sono i grandi gruppi editoriali. Questo perché, non potendo più avviare una strategia di sconti più aggressiva, saranno i primi a “risentirne”. La manovra, infatti, dovrebbe favorire i più piccoli, come le librerie indipendenti
Teoricamente in questo modo anche le librerie più piccole potranno finalmente entrare in competizione con i grandi gruppi soprattutto a livello locale dove sarà maggiormente garantita la tanto sperata pluralità dell’offerta culturale. Insomma, un’editoria che si basa più sulla qualità letteraria che sulle disponibilità economiche.  
Sempre in teoria, i lettori, non spinti dagli sconti ad acquistare i libri dai big dell’editoria, potranno godere di un’offerta più democratica e composta da più attori. 

Ma per ottenere tutto questo siamo sicuri che la soluzione migliore sia abbassare il limite degli sconti? Non era meglio prevedere dei fondi ad hoc per avviare una competizione più equa? Il dubbio è che, in questo modo, in realtà caleranno gli acquisti, dato che la spesa da sostenere per l’acquisto dei libri sarà maggiore. Si comprerà meno ma meglio? 

Probabilmente a ricevere una spinta positiva saranno la lettura in biblioteca e l’usato (in questo caso a giovarne sarebbe anche la salute del pianeta in termini di CO2 immessa e di carta utilizzata). 
Proprio a questo proposito, sono positiva verso le altre manovre previste dalla Legge Levi che si muovono verso una maggiore qualificazione della cultura. 

Infatti negli altri Paesi europei dove sono già previsti limiti per gli sconti o per i prezzi  (Germania, Francia, Inghilterra, Danimarca) le percentuali di lettori sono comunque alte. Questo perché da sempre la loro politica si è mossa in favore di una vera diffusione della lettura con iniziative che intendono “trasformare” ogni cittadino in lettore.  
È questa la direzione che si dovrebbe intraprendere anche in Italia! 

Resta da chiedersi anche se non fosse il caso, in un momento come questo in cui tutte le librerie sono chiuse, rimandare l’entrata in vigore di una Legge di questo tipo la cui portata potrebbe totalmente rivoluzionare il settore librario (e non sappiamo ancora se in negativo o in positivo). 

Edi news

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Firmamento: è in arrivo un nuovo romanzo

Una casa per Buddy: leggi il racconto vincitore del contest A Christmas Tale

A Christmas Tale: il nostro contest di Natale dedicato agli scrittori

Freebie Amami: leggi in anteprima il primo capitolo del nuovo romanzo “Regali da vivere”

Legge sul Libro: cosa cambia?

March freebie: Hand(e)book per scrittori emergenti

Valentines Contest: il contest di San Valentino

March freebie su Instagram

Handbook per scrittori emergenti freebie marzo 2020 libri casa editrice digitale Edilab

Abbiamo creato un Hand(E)book dedicato a tutti gli scrittori emergenti. Una guida con tanti consigli e trucchetti. 󠀠
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Cura

Comincia il libro chiamato “Cura”, cognominato “tecum”, nel quale si contengono due novelle in due dì dette da una giovane donna e un giovane uomo.

Ogni relazione ha le proprie regole. Ogni San Valentino i propri riti.
Panfilo e Pampinea si accingevano a trascorrere il terzo San Valentino insieme. Decisero di intraprendere un rituale amoroso che sarebbe durato due giorni.
I due amanti fuggirono dall’odio, dall’ipocrisia e dalla mondanità, per segregarsi nel loro casale in campagna.
Ogni giornata era costellata di attività finalizzate ad unire la coppia; tuttavia l’evento cardine era la lettura di due antiche novelle, che si erano dedicati durante i primi mesi
d’innamoramento. Una prima lettura, però, perché i due avevano riposto i loro ardori in cadauna lettera di ciascuna parola, ma non avevano mai osato proferirle l’uno all’altro.
Infine il rituale prevedeva la bruciatura degli scritti e un lungo amplesso.

Giornata prima
Panfilo è uno studente universitario, che dall’università ha appreso come comunicare con il mondo che lo circonda. Panfilo è solito viaggiare, adora vivere nuove atmosfere e brama conoscere qualsiasi aspetto che la vita gli ponga davanti.
Panfilo affronta la quotidianità con vitalità ed entusiasmo, nonché il suo nome deriva dal greco e significa “tutto amore”.
Un amore globale che da anni ripone pienamente in Pampinea.

Erano le 9:00 di un 12 febbraio, il ragazzo si trovava nel suo casale in campagna da appena mezz’ora: con Pampinea avevano deciso di attuare un lungo rituale, lontano dalla corruzione urbana.
Il rito iniziale incominciò alle 9:01 del mattino: Panfilo e la sua amata giurarono sul “De Amore” di Andrea Cappellano che avrebbero portato a termine la liturgia senza mai varcare la soglia d’uscita.
In seguito stilarono gli scopi e il programma delle giornate.
Tra gli scopi annotarono: scoprirsi, spogliarsi, scoprirsi complici; accarezzarsi, curarsi, credersi; abbracciarsi, baciarsi, bilanciarsi; leccarsi, illimitarsi, delucidarsi; criticarsi, chiamarsi, cullarsi; penetrarsi, pulirsi, parlarsi; raccontarsi, rannicchiarsi, ridere; ardere, arrossire, arricchirsi…

Introduzione
Alle ore 12:00 Panfilo cucinò un prelibato pranzo a Pampinea, la quale alle ore 13:00 lo gradì.
Durante la digestione i due si scambiarono innocenti effusioni, ripercorrendo gli albori della loro storia d’amore.
Alle 15:30 scrissero su carta tre difetti di se stessi mai accettati. Si conobbero e si curarono.
Infissero i fogli sulla parete.
Alle 16:00 scrissero su carta tre difetti dell’altro mai accettati. Si accettarono e si
migliorarono. Infissero i fogli sulla parete.
Alle 16:30 scrissero su carta tre verità scomode mai metabolizzate. Si fidarono e si leccarono le ferite. Infissero i fogli sulla parete.
Alle 17:00 scrissero su carta tre bugie negate mai metabolizzate. Si criticarono, ma infine riscoprirono un nuovo equilibrio.
Dalle 17:30 alle 18:30 ballarono un silenzioso lento, sostenendosi con lo sguardo.
Dalle 18:30 alle 19:30 si immersero nell’acqua calda e profumata di una vasca accogliente.
Si accarezzarono, si abbracciarono e si inebriarono di aromi.
Alle 19:40 Panfilo preparò una deliziosa cena a tema “erotismo”. La preparazione e la seguente degustazione iniziarono i due amanti ad eccitanti sperimentazioni.
Alle 21:00 Panfilo introdusse la sua novella adolescenziale. Incominciò a leggerla con voce suadente e un particolare brillio negli occhi.

Novella prima
Malinconica. Luna era una ragazza malinconica.
Tramonto era un’isola. Di giorno il mare abbracciava la città e il sole l’accarezzava. Di notte il mare corteggiava la luna.
Luna aveva vent’anni, alta, bionda, occhi nocciola. Aspettava la laurea. Tutti i suoi parenti erano in fermento. Lei aspettava.
A Tramonto abitavano 2000 persone: 500 bambini, 700 malinconici, 600 tormentati e 200 poeti. Il tramonto abitava in 500 bambini, 700 malinconici, 600 tormentati e 200 poeti.
Tormentato. Jack era un ragazzo tormentato.
Tramonto era come mille occhi azzurri di bambini curiosi. Tramonto era come duecento stilo di poeti emotivi.
Jack aveva ventiquattro anni, alto, occhi verdi, capelli neri. Viaggiava sulla sua nave senza nome. I suoi parenti sapevano che non si sarebbe mai laureato. I suoi parenti non erano in fermento, erano preoccupati, perché lui viaggiava. Sempre. In qualsiasi condizione. A qualsiasi condizione.
Luna indossava un vestitino arancione, Jack un abito blu, Tramonto diverse sfumature di cielo.
La laurea in cosa? Neanche Luna lo sapeva. Aspettava.
In quali condizioni? Qualsiasi. Jack viaggiava.
Vento era un caffè vintage. Vento non era neanche vintage, non era mica tappezzato di quadri raffiguranti Marilyn Monroe, gli apparteneva soltanto un’atmosfera intrinseca, amplificata dal corno di un giradischi che cantava vecchi vinili. Un’atmosfera appartenente a tutti i malinconici, a tutti i poeti e a tutti i malinconici che tentavano di trasformarsi in poeti.
Un porto per tutti i tormentati che volevano scrivere le loro emozioni nero su bianco o soltanto ubriacarsi sui passi di James Brown. Una colazione per tutti i bambini che bevevano latte a tempo con Stevie Wonder.
Luna, ogni giorno, sedeva al solito tavolo di quel caffè, ordinava una tazza d’ispirazione e iniziava a creare pagine d’inchiostro, aspettando la laurea.
Jack non era mai entrato in quel caffè. Lui viaggiava. Sempre. Non si sapeva se fosse nato a Tramonto o in nave o lontano. Una cosa era sicura: lui era ovunque. Si potrebbe pensare che così facendo non fosse mai veramente da nessuna parte. No, lui era ovunque.
Una sera arrivò anche nell’apparentemente vintage caffè. Il vento richiamò a sé l’onda del mare. Il sole tramontava nella sola isola che avrebbe compreso quel dolcissimo lasciarsi andare. Magia che si diramava.
Jack si fece condurre dal Vento, come suo solito.
Entrò. Insolito. L’atmosfera gli indicò una ragazza seduta ad un tavolo, immersa nella sua ispirazione. Luna venne travolta da un profumo. Salsedine. La vita li travolse a mo’ di nuvole nel cielo, modellate dal vento.
Come un bimbo in spiaggia, che dopo aver rincorso il suo pallone gonfiabile trascinato dal vento, torna indietro, sorridente, aspettando che sia il pallone a rincorrere lui, Luna arrivò al bancone, vicino al nuovo arrivato.
e tornò sorridente indietro, aspettando il pallone, che, come il bimbo ha poi scoperto, non arrivò. Il tempo di uno scotch al gusto di una voce intensa e Jack riprese il viaggio sulla sua senza-nome.
Un solo incontro. Infiniti incontri fantasticati su carta.
Luna aveva trent’anni, alta, bionda, occhi nocciola. Non si era più laureata. Aspettava il matrimonio. Tutti i suoi parenti erano in fermento. Lei aspettava.
Jack aveva trentaquattro anni, alto, occhi verdi, capelli neri. Viaggiava sulla sua nave avente un nome. Lui era ovunque.
Ovunque c’era il mare, sempre, viaggiava. Di notte c’era la luna, sempre, immobile, incollata alla sua atmosfera. Il tramonto regalava loro la sua magia.
Il vento li faceva incontrare.
Con chi si sarebbe sposata? Neanche Luna lo sapeva. Aspettava.
A quali condizioni? Qualsiasi. Jack viaggiava.
Sempre.
Non si sapeva se fosse un marinaio senza ciurma o un pescatore o un pirata. Una cosa era sicura: il suo mozzo si chiamava fantasia.
Teneva in sospeso la realtà per poter viaggiare con l’immaginazione.
Il vento però richiamò a sé l’onda del mare.
L’ennesima condizione. Rischiosa. Troppo.
Luna aspettava…
Un solo incontro. Finiti incontri realizzati su nave. Jack era un marinaio senza ciurma. Io, una nave senza marinaio. Continuavo a viaggiare. Dentro il tramonto. Sola. Trainata dal vento. Portavo un nome. La mia meta? La Luna.
… aspettava una nave che non portava persone, bensì un nome: il suo.
Maledetta luna! Maledetto mare!
Jack tramontava a Tramonto.

Conclusione
Pampinea celò la propria commozione dietro un luminoso sorriso, prese il foglio scritto e lo baciò di un rossetto purpureo.
Panfilo annusò lo stampo pregno di desiderio, accese un fiammifero e dette fuoco alle parole che ardevano nel suo giovane animo.
Al lume della fiamma, i due corpi danzarono un suadente tango. Pampinea, vestita soltanto di un rosso tacco 12, sfiorò con il suo piede la gamba dell’amato, il quale la strinse a sé. A ritmo, la camicia di Panfilo venne sbottonata e la zip dei jeans abbassata… il ritmo si fece incalzante, la lingua del giovane percorse il collo della ragazza, mentre le dita di lei spinsero l’interruttore, la luce si spense e le mani si trasferirono altrove. Omnia vincit amor et nos cedamus amori.

Giornata Seconda
Pampinea è una studentessa universitaria, che dall’università ha accolto il senso di responsabilità e di condivisione. Ha compreso il significato delle radici e della fatica.
Pampinea studia lettere moderne e crede nel vigore del latino e dell’antico, incoraggia l’immortalità dei sentimenti, universali e senza tempo: l’amore di Dante per Beatrice commuove anche a distanza di secoli, perché tutti osserviamo il Paradiso negli occhi di un Panfilo, in qualsiasi epoca, a qualsiasi età.
Il nome della ragazza indica rigogliosità. La stessa che ripone in ogni sorriso rivolto a Panfilo.

Erano le 10:00 di un 13 febbraio, Pampinea si era appena svegliata accanto al suo amato: lo guardava, il suo viso era così roseo e riposato, le sue labbra sembravano iscriversi in un sorriso, che lei avrebbe voluto baciare. Tuttavia il primo bacio fu lanciato proprio da Panfilo, il quale con la coda dell’occhio notò la giovane in preda ad un’epifania: con un colpo di dolcezza la scosse, integrandola di nuovo nella realtà.
Iniziava un buon giorno.

Introduzione
Alle 10:30 Panfilo e Pampinea recitarono il “Canto V” dell’Inferno di Dante Alighieri. Nel II cerchio volavano le anime dei lussuriosi, di cui Paolo e Francesca si facevano portavoce:
Panfilo e Pampinea si dedicarono a eccitanti preliminari…
Alle 12:00 Pampinea preparò delle gustose pietanze, che alle 13:00 Panfilo degustò.
Durante la digestione Panfilo spazzolò i capelli di Pampinea ed insieme coltivarono un progetto di futuro.
Alle 15:30 scrissero su carta tre momenti di gelosia mai smussata. Si vergognarono, si limitarono, litigarono, strapparono i fogli e si allontanarono. La liturgia era in pausa.
Alle 17:00 Panfilo si sedette sul divano, accanto a Pampinea, e la strinse a sé, curandola dalle paure che l’attanagliavano. Lei lo accarezzò, rasserenandolo. Un lungo e passionale bacio firmò la pace.
Alle 17:30 alimentarono il fuoco del camino, con le carte appese al muro il giorno precedente e con i coriandoli dei fogli della discordia. Le fiamme li inglobarono.
Dalle 18:00 alle 19:30 Panfilo suonò una lieve litania e poi altre cento, mentre Pampinea ne intonava la melodia. Si sostennero sempre con lo sguardo, non avrebbero più ammesso una lontananza.
Alle 19:40 Pampinea compose degli ottimi piatti a tema “romanticismo”. Durante la cena, la dolcezza li pervase.
Alle 21:00 la giovane ragazza presentò il proprio racconto.

Novella seconda
Novembre continua incessantemente a cospargersi di nebbia, come se fosse ancora il 1925. Novembre, l’unico che cristallizzato non si lascia sconvolgere o mutare.
Nebbia come pensieri aggrovigliati. Nebbia come confusione.
Nebbia che scioglie il dissidio. Nebbia che chiede nebbia ma non vuole nebbia.
Stamattina mi sono svegliata, come di consueto, con accanto un libro da terminare, una matita per riempirlo di emozioni e quell’uomo imperfettamente perfetto, la cui mano ancora non si stanca di accarezzarmi ogni singola insicurezza.
Le lenzuola cingevano ogni piega del mio corpo, difendendomi da un’infernale quasi invernale giornata che eppur aveva l’obbligo e la presunzione di dover incominciare.
Il pavimento mi attendeva gelido, mentre lui baciandomi mi incoraggiò al buongiorno.
Mi alzai e pensai ai fabbisogni primari, quindi uscendo dal bagno, pulita e profumata, preparai il caffè, lo versai nelle tazzine insieme ad un goccio di latte, sia per me sia per lui ed infine spalmai della marmellata d’albicocca all’interno di entrambe le brioche, al fine di renderla meno infernale, quella giornata.
Al termine della colazione, scesi sino alla cassetta postale e risalii le scale, non proprio soddisfatta, con in mano le bollette da pagare. Ma solo dopo averle aperte una ad una mi resi conto che fra le tante cifre c’era una lettera spedita in un giorno diverso da uno qualunque dalla persona che non conosceva altrove.
La lessi, piansi all’interno della calligrafia ricordandomi che chi condusse la penna aveva il disonorato onore di poter vedere il mascara colato a cui nessun altro per fiducia o per orgoglio personale permettevo di struccare.
Allora presi il cellulare, composi il numero telefonico dell’ufficio in cui lavoravo ed avvisai che non sarei arrivata. La mano tremante stropicciava il foglio.
Anche lui avvisò che per imprevisti problemi non sarebbe potuto andare in ufficio quella mattinata. Inoltre prese le chiavi che avevo lasciato cadere sul tavolino di legno di ciliegio e con uno scatto repentino, quasi accennato della mano serrò la porta, come a voler lasciare il mondo fuori per comprendere quel mondo interiore il cui sbarcare era gesto valoroso quando non impossibile.
“Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde.” Chi lo disse conosceva l’essenza dell’imprevedibilità della vita!
Ci sedemmo intorno al tavolo tra le carte, con la lettera in mano, parlando di sentimenti e di ricordi che non sarebbero potuti morire per il solo motivo di essere esistiti e di non essersi mai eclissati.
Novembre, un nebbioso novembre di piena adolescenza. Ogni novembre ha una finestra che affaccia sull’orizzonte di nebbia, però, più dettagliatamente, la suddetta finestra lo faceva su un mare di nebbia… mare tormentato, forse non quanto Aña Maria che lo fissava amorevolmente e convulsamente dai vetri, in una postazione privilegiata.
Dialogarono come solo chi riesce a leggersi può fare…
Suo fratello rimase attratto dalla situazione, incompleta e confusa, come se la tragedia di Romeo e Giulietta si fosse di colpo intrecciata divenendo incomprensibile ai più, ma non a quei due, che con l’aiuto della nebbia scioglievano il dissidio nell’immensità del cielo.
Prese una tela e un pennello per immortalare e per completare ciò che a lui, come al resto del mondo, era negato. Lo scopo era rintracciare l’imperscrutabilità e dilaniarla. Non ci riuscì, la interpretò nei colori ma non la risolse. Ipotizzò un amore, suppose un addio.
Era un’analisi, era una crescita e poi sì, era anche amore, universale.
L’equazione rimarrà irrisolta per suo fratello, bensì una soluzione l’avesse ed i passaggi vennero scritti in una semplice lettera, a distanza di anni, in quanto la situazione ora era completa e disciolta da ogni confusione.
Il dialogo avveniva tra due anime tormentate, il tutto mitigato dalla nebbia che era attesa, che era la matematica che avrebbe risolto l’equazione, ma contemporaneamente faceva talmente paura la verità che si sperava in un suo divampare.
“Ci guardammo attraverso un vetro. Ci comprendemmo… avevamo troppe affinità per non farlo! Hemingway avrebbe detto che quel mare era donna, sì per me lo era, per me eri tu.
Parlavo con te, nel riflesso delle onde, perché non potevo farlo a voce, non ce ne era tempo, né coraggio. Mi immaginavo i tuoi lunghissimi capelli castani, i tuoi occhioni che mi fissavano, noi due a casa a scambiarci segreti e pareri, a piangere le prime delusioni e a brindare ai primi amori. Stavamo cambiando, ma non stavamo passando. Evolvevamo avendo paura di diventare Mr. Hyde e con la speranza di non morire dottor Jekyll.
Tremavamo al pensiero di vederci talmente diverse da non riconoscersi una dentro l’altra.
Se non si riconosce l’ancora, come si fa a sopravvivere?
Lo chiedevo al mare, perché lui, anzi lei, ne aveva viste molte di ancore e le aveva
inghiottite. Poteva rispondermi, era la sola d’altronde… non quel giorno però…era troppo tormentata… o forse lo ero io… o forse non accettavo la nebbia.
Poi accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde. No?
Stamattina mi ha risposto, sono passati anni. Ho accettato la nebbia.
Stamattina mi sono svegliata, come di consueto, con accanto un libro da terminare, una matita per riempirlo di emozioni e quell’uomo imperfettamente perfetto, la cui mano ancora non si stanca di accarezzarmi ogni singola insicurezza.
Al termine della colazione, mi affacciai dalla finestra, la stessa. Medesimo mare, mare di nebbia, mare tormentato. Mi richiamò e mi diede la risposta che mi diede la vita: ci saremmo riconosciute, diverse ma radicate nel passato e proiettate in un futuro. Brindisi e pianti continuano. Non termineranno. Sai perché? Perché le ancore affondano, non si limitano alla superficie, a loro importa la sabbia, non l’irrequietezza o la calma delle onde. Me lo raccontò il mare, dopo averle inghiottite… carichi di salvezza. Aña Maria”
Seduta su quel tavolo parlai al mio uomo della donna che mi aveva creduto mare e che ora mi rendeva nel segreto del mare. Gli parlai della veterana, che oggi aveva preferito un buongiorno diverso da quello sterile, ma pur sempre amato, tramite uno schermo.
Gli parlai delle radici.
Gli parlai di un amore che non ha sesso, che non ha attrazione, ma solo protezione: l’amicizia!

Conclusione
Il braccio di Panfilo cinse la vita di Pampinea, avvicinò la sua bocca all’orecchio dell’amata e le sussurrò parole di conforto, dal sapore di eternità.
Pampinea, allora, ebbe il coraggio di bruciare quei fogli, per lasciarsi andare con piena fiducia all’erotismo.
Panfilo portò il buio, dal quale i due amanti vennero avvolti. In seguito solo il tepore dei corpi, il suono degli ansimi e le grida degli orgasmi. Vinculum amoris est idem velle.

Giornata terza
“Due virgole di sperma sulla schiena” così cantavano i Baustelle in radio, alle 11:00 di un 14 febbraio. Pampinea e Panfilo erano in viaggio, il Maggiolino li portava altrove, nell’intima mondanità dei festeggiamenti di San Valentino.
Soltanto due ore prima si erano destati nel casale in campagna. Si erano stretti in una calda, ma felice, commozione.
Alle 9:30 misero fine al rito, ormai terminato nei suoi scopi e nel conteggio dei giorni.
Rilessero gli obiettivi, saldi nella loro rinnovata anima; baciarono il “De Amore” di Andrea Cappellano in segno di conclusione e di fedeltà. Prepararono le valige, pulirono e ordinarono il casale, chiusero le manopole dell’acqua e del gas e spensero la luce.
Caricarono i bagagli in macchina e si misero in viaggio.
Durante la guida, di volta in volta si sostenevano con gli occhi. Oculi sunt in amore duces.

Qui inizia la terza e ultima giornata del libro chiamato “Cura” cognominato “tecum”

Conclusione dell’autore
Ripongo ogni parola, con annesso significato, in “ciascun’alma presa e gentil core”.
I fedeli d’amore ripongono il loro sentimento in una persona o forse anche in più persone, non importa il sesso, la relazione, l’età o la taglia. L’amato può essere donna, uomo, oppure sentirsi solamente tale; può essere amore erotico, amicizia, amore paterno o amore materno; può essere nonna o figlia; può essere umano, animale domestico o animale selvaggio. Colui che ama può piangerne i dolori, può sospirare, può dilettarsi delle carni, può comprenderne la dolcezza, può credere nell’eternità, può crollare, può fare tutto ciò che “lor segnor, cioè Amore” comanda.
Ripongo ogni parola in voi non perché carica di qualche verità o bellezza, bensì perché Amore tiene “meo core in mano”. Solo voi, le potete capire.

Un albergo per amarti

“E infine alla mia adorata nipote Morgana lascio in eredità il 50% della proprietà dell’albergo “Le lancette”, l’altra metà la lascio al figlio del mio amico e fidato commercialista Carlo, il sig. Alex. L’albergo è inattivo da molti anni, tuttavia non dovrà essere venduto, il primo dei due beneficiari che avanzerà formale istanza di vendita del bene dovrà versare all’altro l’intero ammontare del valore del bene”.
“Cosa?” Esclamammo in coro io e Alex.
“È assurdo Sig. Notaio” protestai io. “La prego ci deve essere un modo per non far accadere tutto questo”.
“Già Sig. Notaio” fece eco Alex “io con questa tipa non voglio avere in comune neanche mezzo spillo.”
“Mi chiamo Morgana, tipa sarà tua sorella” esclamai io cercando di scatenare una lite furibonda davanti al funzionario.
Io e Alex ci odiavamo da anni, non era possibile avere quel lascito in comune, prima il notaio se ne sarebbe reso conto e prima avrebbe trovato un modo per liberarci da quel peso.
“Mi spiace Signori non è possibile fare niente, se rinunciate all’eredità ciascuno di voi dovrà versare al sottoscritto una penale pari al doppio del valore del bene, importo che sarà interamente devoluto ad alcune associazioni filantropiche di cui il defunto era un attivo benefattore”.
“Al diavolo,” sbottò Alex “io non voglio avere niente in comune con questa, quanto potrà mai essere questa penale? L’albergo è un rudere ed io ho qualche risparmio, se non bastasse sono disposto a chiedere un prestito, tutto pur di non dover dividere niente con lei, anzi ho già sopportato la sua schifosa presenza fin troppo!”
A quelle parole voltai lo sguardo per non mostrare i miei occhi lucidi mentre il notaio pronunciava la cifra di 1 milione e 200 mila euro, secondo la stima fatta da un perito.
“È tutta colpa tua” mi urlò Alex “Tu… tu… al diavolo! Ti aspetto domani alle 10 davanti a quell’albergo e vedi di esserci o vengo a prenderti a casa, così decidiamo cosa fare di quel rudere.” Poi sbatté la porta e se andò con passo furioso.
“In che guaio mi ha cacciato il mio prozio?” piansi davanti al notaio.
“Mi spiace non so che dire” rispose lui.
Me ne andai ferita e depressa; la rabbia di Alex nei miei confronti era stata una pugnalata al cuore. Ci detestavamo da anni sì ma da piccolissimi eravamo stati
grandi amici. Poi un giorno lui venne da me e mi diede un calcio nella milza, mentre io piangevo a terra lui fu raggiunto da un gruppo di ragazzi e se ne andò senza parlarmi più.
Da quel giorno mi fece i peggiori scherzi per farmi piangere, ed io imparai a reagire a mia volta con offese e silenzi. Finii la quinta elementare e me ne andai da quella scuola, lui continuò lì io per molto tempo non lo vidi, ma quando un’estate tornai a trovare il mio prozio, ci incontrammo davanti alla porta del suo studio.
Lo riconobbi a mala pena, era sempre stato carino da piccolo ma da grande era bellissimo, alto, castano, capelli medio lunghi e i suoi soliti occhi marrone verdi, che però non erano più affettuosi. Il mio cuore iniziò a battere all’impazzata ed arrossii vedendolo, ma sperai che lui non se ne accorgesse, era bello sì, e mi piaceva quel che vedevo in quel momento, ma il modo in cui mi aveva ferito era imperdonabile, per colpa sua ero lo zimbello della classe, non glielo avrei mai e poi mai perdonato.
“Morgana!” mi salutò lui a malapena quando mi vide.
“Alex!” risposi rabbiosamente io, mentre il mio cuore galoppava a più non posso nel petto.
Il mio prozio mi raccontava di lui, di quanto fosse bravo e studioso ma io o stavo zitta o lo interrompevo parlando di altro.
Dicevo che era morto e sepolto che lo odiavo e detestavo, ma avevo ancora nel portafoglio una nostra foto insieme durante una gita…
Gli avevo voluto bene da piccola, era stato il mio amico speciale, il mio confidente, il mio tutto, forse dopo quel fugace incontro stava diventando il mio primo amore.
Non parlargli più fu una delle perdite più dolorose che dovetti affrontare.
Il giorno dopo ci trovammo puntuali davanti all’albergo, aprii l’enorme cancello; e con un timore che in lui non pensavo avrei mai visto, entrammo.
L’albergo era davvero intatto, con le torrette che si stagliavano verso il cielo in perfetto stato, sembrava guardare con tristezza lo scorrere del tempo.
“Magnifico” dissi io col cuore in gola.
“Già” rispose Alex con un tono di apparente calma che non gli udivo da tanto.
Procedemmo nel giardino abbandonato notando come il tempo non avesse però danneggiato il suo ordine e la sua bellezza, le rose erano potate e curate, l’erba tagliata.
“Anche se era in disuso la manutenzione la faceva sempre fare” disse Alex con lo sguardo perso all’orizzonte.
“Io non lo sapevo…” mormorai.
“Per forza non sai niente; sei sparita! Te ne sei andata via senza salutare. Non hai mai messo più piede qui per anni se non qualche estate e adesso torni qui e senza aver fatto niente ti ritrovi una parte dell’albergo e la cosa mi manda in bestia…” Urlò lui. “Non è giusto ok? Non è giusto! Ero io che falciavo il prato d’estate per permettermi due spiccioli in più per non chiedere sempre a mio padre! Ero io che aprivo per dare aria alle stanze… Io non tu. Tu dov’eri eh? Dove!”
“Via! Ero via. Via perché papà ha avuto un trasferimento e ha deciso senza dirmi niente. Mi sono trovata catapultata su una macchina senza poter dire niente e se non ti ho salutato è perché tu mi hai trattato malissimo per tutto l’anno scolastico. Mi hai fatto piangere tutti i giorni, ti eri messo con quei ragazzi che mi prendevano in giro, quelli da cui prima mi difendevi, ridevi con loro di me. Mi hai fatto scivolare nel cesso, tirato i capelli, fatto lo sgambetto dalla sedia, e detto che ero la bambina più brutta che avessi mai visto e che giocavi con me solo perché ti facevo pena, ma malgrado tutto questo, mi è dispiaciuto andarmene senza salutarti, visto che io ti volevo bene, sei contento adesso?”
“Entriamo…” disse lui serio.
Aprii anche questa porta, piano, Alex trovò l’interruttore senza intoppi, poi andò ad aprire uno dei pesanti scuri e lascia entrare la luce del sole.
L’albergo era intatto, nessun mobile rovinato e i possenti arredi in stile anni 20 la facevano ancora da padrone. I ritratti erano scuriti da una patina di polvere e di fumo, ma alcuni volti erano ancora ben visibili, quello della mia prozia in primis.
La stanza che ci ha accolto: il salone, aveva ancora il pianoforte aperto col telo verde sopra i tasti, i divani erano coperti dai cellophane i lampadari se ripuliti sarebbero potuti tornare a splendere e ad illuminare a giorno il salone, e sull’enorme tavolo rotondo una scatola fiorita con un coperchio.
“Cos’è?” chiesi ad Alex curiosa…
“Io non lo so, l’ultima volta che sono venuto qui non c’era, guardiamo dai.” E di nuovo un tono calmo, quasi dolce; mentre la sua mano gentilmente mi spingeva per la schiena verso il tavolo.
La sensazione di caldo al contatto con la mia pelle mi mise i brividi, e con passo lento e tremante mi avvicinai alla scatola.
“Al mio tre?” mi chiese lui quasi sorridendomi.
“Come sempre” risposi sorridendo.
“Uno, due e tre” dicemmo in coro ed insieme aprimmo la scatola.
Quello che trovammo al suo interno si rivelò un colpo al cuore.
La scatola era piena di nostre foto, mie e di Alexander, che giocavamo da bambini nel giardino dell’albergo.
“Noi? Qui?” chiesi io.
“Già, non ricordi?” chiese lui guardandomi negli occhi con una luce nuova che non gli avevo mai visto.
“Io credo di aver dimenticato per non soffrire. Erano i nostri momenti belli e non volevo ripensarli mentre tu eri cattivo con me” risposi io.
“Scusami, io mi sono lasciato condizionare da quei ragazzi. Io volevo qualche amico in più sai, non al nostro livello di amicizia ma qualcuno con cui giocare quando tu non c’eri e loro sono arrivati e mi hanno detto che con le bambine non si gioca, che si prendono solo in giro ed allora per essere accettato da loro ho iniziato a comportarmi come loro, ma soffrivo anche io mentre lo facevo e dentro di me ti volevo ancora bene, anzi, penso di non aver mai smesso…”.
“Anche io ti volevo bene, Alex, tantissimo”.
“E adesso? Me ne vuoi ancora un po’ o mi odi e basta?” chiede lui piantando i suoi occhi verde/marrone nei miei.
“Io… Io te ne voglio ancora Alex, non ho mai smesso e mai smetterò” risposi, consapevole che avrei potuti scottarmi, consapevole che da quel giorno davanti allo studio di mio zio il mio cuore batteva per lui, consapevole che in quel momento, lui avrebbe potuto ferirmi con solo una parola o un gesto.
Ed invece, non sento altro che le sue labbra calde sulle mie, mentre le sue braccia mi stringono forte.
“Resta” mi chiese “Risistemiamo questo posto, non scappare, riproviamo, diamoci una chance, non vendiamolo”.
E fui io a baciarlo stavolta. Perché Alex per me era ed è sempre stato questo, la mia casa, il mio migliore amico, il mio tutto. Il mio amore.

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