Zia Mame

Patrick Dennis racconta di un orfano che viene affidato alle cure dell’unica parente ancora in vita, una zia mai conosciuta ed estremamente eccentrica… Dalla trama non avrei mai pensato che questo romanzo potesse nascondere un piccolo gioiello che fin dalla prima pagina riesce a catturare il lettore. 

Il susseguirsi dei capitoli attraverso cui il lettore impara a conoscere Zia Mame e vede Patrick crescere sono un concentrato di energia e ironia. I numerosi personaggi che incrociano il loro cammino non distraggono mai dal vero fulcro della narrazione, la zia. Una donna dinamica, irresponsabile e anticonformista che nella vita si lascia guidare sempre e solo dall’istinto trascinando nelle proprie follie anche il nipote.  

A fare da sfondo alle loro avventure è New York. Quella degli anni Venti, con le sue feste, i locali e la vita mondana ma anche delle difficoltà economiche della Depressione e delle brutture della guerra. Una società che muta e che Dennis ritrae con piccoli accenni, senza soffermarsi troppo, con uno stile brillante e ironico che non annoia mai. 

Dietro alle molteplici identità che Mame assume di volta in volta si svelano un’acuta intelligenza e una sottile comicità che rendono questo personaggio completo. A bilanciare la sua esuberanza, Patrick con la sua pacatezza e l’inspiegabile equilibrio mentale con cui resiste alle influenze della sua tutrice. Nonostante le sue assurdità mi sono più volte ritrovata a pensare che avrei voluto anche io una zia come Mame, un personaggio che ha la capacità di essere odiato e amato allo stesso tempo e che è una vera forza della natura.

La Signora delle Camelie

La signora delle Camelie immerso in un’atmosfera d’altri tempi ha il fascino tipico della letteratura francese. Il tema è quello dell’amore impossibile tra Marguerite, la cortigiana più nota di Parigi e il giovane Armand che, amandola, riesce ad abbattere i muri di indifferenza della donna. Ma non aspettatevi il finale “e tutti vissero felici e contenti”. Il romanzo si apre infatti con un flashforward attraverso cui Dumas decide da subito di avvisare il lettore sul triste destino dei due amanti.

L’aspetto più affascinante della storia è che sembra che Marguerite sia una cortigiana realmente esistita e frequentata da Dumas, il che tinge il romanzo di colori cupi. È facile immaginare Alexandre struggersi tra le vie di Parigi per la perdita dell’amata. Dumas ha trasformato il suo romanzo in un’opera teatrale poi musicata da Giuseppe Verdi come La Traviata la cui protagonista è stata portata sulle scene da attrici come Eleonora Duse e Greta Garbo. Nel 2001 anche il regista Baz Luhrmann con Moulin Rouge! ha deciso di raccontare sul grande schermo la storia d’amore di Satin e Christian con riferimenti espliciti all’opera di Dumas, pur inserendo il tutto nella cornice di Montmartre che ricorda, invece, la Bohém di Puccini. Il successo dell’opera di Dumas si può forse legare al fatto che, pur essendo l’amore il tema centrale, non si tratta di un banale romanzo rosa. Se a una prima lettura l’autore sembra voler punire la sregolatezza della vita di Marguerite attraverso la sua morte – la tisi era una delle malattie più diffuse tra le prostitute dell’epoca – e la solitudine dei suoi ultimi giorni, ci si rende ben presto conto che la sua opera è molto di più. Dumas ha reso attraverso pennellate sicure e nette un quadro perfettamente realistico della Parigi dell’Ottocento in cui a regolare la vita sociale borghese è l’ipocrisia di chi solo apparentemente condanna un fenomeno più che diffuso. La storia d’amore prende forma attraverso le parole di Armand: il ricordo dell’amore folle che i due hanno vissuto non riesce a colmare il vuoto lasciato dall’amata neanche a distanza di anni. I due si incontrano a teatro e l’uomo immediatamente se ne innamora, mentre la donna ride di questo giovane inesperto, che a confronto dei suoi molti amanti, non può portarle nessun vantaggio perché per Marguerite l’amore non è altro che uno scambio materiale, non è certo un sentimento che scalda il cuore.

Il passo deciso, la figura slanciata, le narici rosee e aperte, i grandi occhi leggermente cerchiati d’azzurro, denotavano una di quelle creature ardenti, che spandono tutt’intorno un profumo di voluttà, come quei flaconi d’Oriente, i quali, benché perfettamente chiusi, lasciano sfuggire l’effluvio dell’essenza che contengono.

Per due lunghi anni i due non si rivedono perché una malattia tiene lei lontana dalla vita mondana a cui era solita partecipare. Il giovane ogni giorno chiede delle sue condizioni di salute ma senza mai rivelare la propria identità. Una volta guarita, scoprendo che Armand è l’uomo delle visite misteriose, si innamora della sua tenerezza e caparbietà: per la prima volta si è sentita protetta, che sia questo l’amore? Armand, però, non è solo innamorato, è geloso e non può sopportare l’idea che qualcun altro possa anche solo sfiorarla, per Marguerite è difficile rinunciare alle relazioni vuote e superficiali a cui era abituata. Nonostante le difficoltà e le differenze riescono ad essere felici come non lo erano mai stati, ma la famiglia del rispettato Armando non crede nella loro relazione e con un atto di profondo egoismo convincono e costringono Marguerite a lasciare l’amato per timore che, il suo, sia un mero interesse economico. Armand, che non sa la verità, non può fare altro che disprezzarla   

Dunque Marguerite era una sgualdrinella come tante, questo profondo amore che sentiva per me, non ha nemmeno lottato contro il desiderio di riprendere la vita di un tempo.

Il Signore degli Anelli

In un buco nella terra viveva uno hobbit. Non era un buco brutto, sudicio e umido, pieno di vermi e intriso di puzza, e nemmeno un buco spoglio, arido e secco, senza niente sicuri sedersi né da mangiare: era un buco hobbit, vale a dire comodo.

Questo celebre inizio è inconfondibile, come il simbolo di una casa di produzione cinematografica avvolta da nubi nere. Non potevo non usare questo incipit per l’argomento che affronteremo. Cercherò di trattare questo tema da fan (come il resto di voi) cercando di non omettere niente ed essere più esaustivo possibile. Penso di avervi già fatto perdere troppo tempo. Buona lettura!

Oggi vorrei parlare di un autore che per anni con il suo genio (a volte incompreso) è riuscito a dividere le opinioni di grandi uomini dell’editoria come Mondadori e l’allora collaboratore della casa editrice, Elio Vittorini. I due, infatti, per molto tempo sono stati di opinioni discordanti sul pubblicare o meno le prime opere di Tolkien. Rifiutato per ben due volte dalla casa editrice milanese (nel 1954 e nel 1962) la sua prima opera La compagnia dell’anello giungerà sugli scaffali delle librerie italiane solo nel 1967 grazie all’intuizione di un editore minore, il romano Mario Ubaldini.

Già! Molti di voi avranno intuito, il padre di un genere che in quegli anni in Italia era ancora sconosciuto è sbarcato nel nostro paese quasi in sordina, nessuna pompa magna. Proposto dalla sua casa editrice inglese Allen & Unwin ai grandi pilastri dell’editoria italiana ha ricevuto battute d’arresto con flebili scuse sulla sua impraticabilità alla pubblicazione, in quanto il grande pubblico in quel preciso momento storico, secondo le loro analisi, desiderava comprare tutt’altro genere.
A mio avviso solo perchè nessuno aveva mai proposto un genere leggero, un genere in cui tutti potessero immedesimarsi, un genere in cui amare il proprio eroe. Un romanzo in cui poter vivere avventure e trovarsi dentro leggende capaci di trasportarti in pochi istanti in un mondo fantastico popolato da creature di ogni tipo, da elfi capaci quasi di sovvertire le sorti di ogni creatura fino ai possenti nani in grado di creare gallerie di immani proporzioni proprio sotto i tuoi piedi.

E in quel momento le loro mani s’incontrarono e si strinsero, ma essi non lo sapevano.
E continuavano ad attendere qualcosa.

Se l’editore romano ha il primato della scoperta, però neanche qui possiamo chiudere con un lieto fine, infatti nemmeno Ubaldini riesce a dare il giusto lustro al padre di un genere appena nato. Tolkien infatti deve aspettare altri tre anni per conoscere la gloria nel nostro bel Paese, grazie all’edizione di Edilio Rusconi, l’innovativa casa editrice si impone con abili mosse oscure a gran parte dei suoi competitor. Ascoltare il proprio autore.
Non vi prendo in giro, ma è la sacrosanta verità, Rusconi segue alla lettera le istruzioni impartitegli da Tolkien stesso, ad esempio far uscire in un unico volume quello che sarà il suo masterpiece. Il “lieto fine” dopo questo walzer di autori che si sono succeduti lo troviamo nella Bompiani che nel 1999 ne acquisisce i diritti e che sotto la saggia guida di Elisabetta Sgarbi trova il suo equilibiro definitivo.

Ma scopriamo le origini di questo grande genio letterario: nato in Africa nel 1892, da genitori inglesi, ritorna dopo soli 3 anni in Inghilterra con la madre e il fratello. Il padre – che non prende parte al viaggio – muore poco dopo in seguito a una malattia che lo tormentava da tempo. I successivi anni inglesi però non portano bene ai Tolkien. A causa delle condizioni economiche in cui versa la famiglia sono costretti non solo a cambiare casa più volte ma anche ad abbandonare la prestigiosa scuola che stava frequentando per una di livello più modesto.
Ma si sa, proprio davanti alle avversità, solo i grandi hanno la forza e il coraggio di rialzarsi: vince infatti una borsa di studio che gli permette di frequentare nuovamente le lezioni della sua vecchia e amata scuola, dove poi completerà gli studi.
La figura della madre e del sacerdote hanno segnato profondamente la cultura e le passioni del giovane Tolkien. È grazie a Morgan che svilupperà un interesse per le lingue classiche, il gotico e il finnico. Ma ancora più importante è l’amore per la madre che lo porta a conservare nel suo cuore e nei meandri della sua mente una passione sconfinata per le leggende e le fiabe. Fra circoli letterari, libri e mondi immaginari trova il tempo anche per coltivare un’amicizia che sfocia in un grande amore per Edith Bratt, ma può esternare tutto questo suo sentimento solo al compimento dei 21 anni.

La coesione di leggende e fiabe porterà il giovane Tolkien a immaginare fin dall’inizio i confini di Arda, purtroppo il suo destino, come quello di molte grandi menti europee è legato a quell’orribile mostro che riesce a spazzare milioni di vite come una leggera brezza marina. La guerra. Arruolato volontario, sposa Edith prima di lasciare Londra, parte per il fronte (nessun corso di addestramento può mai formarti a cosa andrai ad affrontare) e viene subito spedito in trincea, li trovano la morte due dei suoi migliori amici, ma Tolkien dopo sei mesi a causa di una malattia viene rispedito a casa.

Che dire ancora, da qui in poi per lui gli anni successivi sono in discesa, vari titoli arricchiscono la sua già onorevole carriera accademica, la sua vita migliora con la nascita dei suoi tre figli e la quantità di opere prodotte in quegli anni è incalcolabile. Opere che ci hanno catapultati ad Arda con la forza e con la violenza che solo un pugno allo stomaco può fare, ma appena rialziamo la testa ci rimane solo lo stupore puro e vero da bambini.

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Alice nel Paese delle Meraviglie

In origine si trattava di un semplice racconto inventato per distrarre le tre piccole Liddel durante una gita estiva ma le 160.000 copie vendute della prima edizione illustrata da John Tenniel fanno immediatamente capire il futuro di quella fantasia estemporanea. Una storia iniziata più di 150 anni fa e che ancora non accenna ad avere una fine. L’opera di Lewis Carroll è, infatti, una delle più riscritte per lo schermo, spesso in una fusione dei personaggi e delle situazioni dei due libri. Non solo Alice, infatti, viene resa protagonista di quasi 40 versioni tra film, musical, serie tv, manga (e addirittura un porno) ma è anche substrato della più varia cultura letteraria e musicale dell’ultimo secolo. Proposta come letteratura per bambini in realtà si tratta di un’opera molto complessa e articolata basata sulla mutevolezza del linguaggio.

L’opera di Carroll, in questo senso, spiega perfettamente la teoria sulla metasemantica di Fosco Maraini (autore de Il Lonfo, poesia che dovreste assolutamente leggere) secondo cui non sono le parole in se stesse a comunicare. Anche in presenza di parole del tutto inventate il significato, infatti, rimane completamente comprensibile se utilizzate secondo le regole semantiche della lingua in questione. In questo senso la poesia nonsense Jabberwocky di Alice attraverso le specchio e quel che Alice vi trovò, pur non avendo un vero e proprio senso linguistico e logico, non perde la propria sostanza comunicativa.

Era cerfuoso e i viviscidi tuoppi

ghiarivan foracchiando nel pedano:

stavan tutti mifri i vilosnuoppi

mentre squoltian i momi radi invano

La particolarità dell’opera di Carroll risiede nell’utilizzo di modi di dire, proverbi e giochi matematici nella costruzione dei dialoghi. Quelli proposti non sono semplici costruzioni in stile nonsense ma paradossi, cardini della cultura filosofica. Proprio questo rende quasi impossibile una traduzione (e pensate che è stato tradotto in oltre 50 lingue!) fedele al testo originale così profondamente legato alla cultura della lingua di origine. Il famoso indovinello del Cappellaio Matto, ad esempio, pensato originariamente per non avere una soluzione viene spiegato solo successivamente dall’autore stesso per appagare la curiosità dei suoi lettori.

Why is a raven like a writing desk? – Perchè un corvo è simile a una scrivania?

Carroll in una nota spiega che:

it produce a few notes, though they are very flat; and it is nevar put with the wrong end in front!”

In italiano potremmo dire che sia perché entrambi sono capaci di riprodurre note – musicali quelle del corvo e scritte quelle della scrivania. L’aggettivo “flat” (piatto) fa invece riferimento alla nota bemolle (in inglese “flat note”, appunto) e alla carta su cui si scrivono gli appunti. Infine nessuno metterebbe mai una scrivania e un corvo al contrario!

La disgrafia “never” scritta come “nevar” potrebbe far pensare a un refuso determinato dal modo in cui si pronuncia la parola. In inglese, infatti, questo tipo di errore è piuttosto comune (ecco il perché delle gare di spelling in tutti i film e serie tv!). In questo caso, però, in linea con il grado di educazione ricevuta dall’autore e con la natura dell’opera carrolliana, è più plausibile che si tratti dell’acronimo di “raven” (corvo).

Il Paese delle meraviglie è un mondo in cui sembra che nessuna legge trovi applicazione. Nella sua dimensione onirica, in cui tutto è possibile e ogni cosa viene accolta per quello che è, non esistono la fisica, né tantomeno la logica linguistica. Le parole, non più utilizzate per spiegare concetti concreti, si plasmano fino a diventare meri elementi di equazioni matematiche.

Quando io uso una parola” disse Humpty Dumpty, in tono non privo di disprezzo, “la parola significa quello che io voglio farle significare, nè più nè meno.”

Attraversando lo specchio, Alice si trova in un mondo del tutto al contrario ma anche in questo la logica non viene stravolta. È noto a tutti che, guardandosi allo specchio, tutto appare al rovescio. Quindi perché dovremmo pensare che, potendo entrarvi, quel mondo non sia realmente così?

Quello in cui finisce Alice è solo apparentemente un mondo regolato dal caos. La logica e le altre leggi naturali del Paese delle meraviglie sono incoerenti semplicemente perché le valutiamo in base a quelle del mondo che noi conosciamo. Alice, però, attraverso il suo viaggio ci insegna che:

Se viceversa così fosse, potrebbe essere; e se così non fosse, sarebbe; ma dato che non è, non si dà.

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Il fascino di Harry Potter

Sarebbe irrealistico pensare di poter raccontare cosa sia la saga di Harry Potter in un semplice post. Una recensione della trama o un giudizio sui personaggi sarebbe semplicemente la ripetizione di quanto già detto e scritto da altri. La verità, però, è che il suo fascino non ha mai smesso mai di incantare, nonostante siano passati più di vent’anni da quando Salani ha deciso di pubblicare Harry Potter e la pietra filosofale in Italia.

Ci vuole molto coraggio per resistere ai nostri nemici, ma anche per resistere ai nostri amici.

Tutti quelli che hanno amato questa saga, con l’uscita di Harry Potter e i doni della morte hanno ben chiaro il ricordo di cosa significasse poter mettere al proprio posto quell’ultima tessera di un puzzle che si sperava quasi fosse infinito ma di cui, allo stesso tempo, si voleva conoscere il finale. Quell’ultimo libro significava veder chiudere un cerchio durato 10 anni ma anche l’inesorabile vuoto che leggere l’ultima pagina avrebbe portato. Sarebbe arrivata la fatidica domanda che sorge spontanea ogni volta che si sta leggendo IL libro: “e adesso…?”. Perché se è vero che fin dalla prima pagina si ha la consapevolezza che si tratti di finzione, è inevitabile sentirsi parte di un qualcosa che va oltre le pagine di carta.

Abbiamo tutti luce e oscurità dentro di noi. Ciò che conta è la parte con cui sceglieremo di agire. Ecco chi siamo veramente.

La chiave per capire questa sensazione si riesce a capire solo oggi che il fenomeno di Harry Potter è stra-noto a tutti e ogni segreto (forse) è stato svelato. La differenza con le altre saghe di successo è che in questa si percepisce il disegno dell’autrice, che non viene definito di libro in libro ma che le era già chiaro fin dall’inizio. Ogni dettaglio porta a qualcosa di più grande, se pur visibile al lettore solo alla fine. Nelle altre saghe, per quanto ben scritte, si sente la mancanza di una programmazione così minuziosa. In queste ultime spesso si trovano dettagli che servono a dare alla storia una certa direzione ma di cui si potrebbe fare a meno per l’architettura complessiva dell’opera.

La traduzione italiana ha risentito proprio del fatto che il quadro generale rimanesse sconosciuto al lettore, e quindi al traduttore. Nessuno poteva immaginare che anche nella scelta dei nomi ci fosse un significato nascosto. È per questo che il nome Albus Silente stona del tutto con un personaggio che è tutt’altro che “silenzioso” e che l’autrice, infatti, ha dichiarato aver immaginato come “sempre in movimento, che mormora continuamente tra sé e sé” e che quindi si allaccia al suo originale nome di Dumbledore (che rimanda all’antico nome inglese del calabrone, bumblebee). Che dire anche di Neville Paciock, se questo nome può essere giusto per il ragazzino timido dei primi libri è totalmente in disarmonia con l’eroe che diventerà negli anni. La traduzione italiana ha risentito anche della natura stessa dell’opera. Se infatti il primo libro viene recepito come letteratura per l’infanzia, fin dal secondo volume ci si rende conto che si tratta di ben altro. Negli anni trascorsi a Hogwarts non sono solo i personaggi a crescere ma l’intero impianto narrativo che matura con loro.

La Rowling non ha solo creato personaggi di una storia, ogni elemento è talmente dettagliato che non si può evitare di sentirsi parte di quel mondo. Un mondo pensato e descritto in ogni sua sfumatura più piccola, tanto da sembrare reale. Chi, leggendo i sette libri, non è riuscito a percepire il gusto delle caramelle tutti i gusti più uno, l’odore della Passaporta a casa Wesley, il rumore della folla alla coppa di Quidditch?!

È proprio la voglia di essere parte di questo universo che ha portato alla nascita di altri grandi successi. Da una parte il futuro messo in scena a teatro con Harry Potter e la maledizione del bambino – visto anche sugli scaffali delle librerie italiane dal 2016. Dall’altra, il passato raccontato da Animali fantastici e dove trovarli, uscito nelle sale italiane nello stesso anno ma che riprende il titolo di un libro del 2001. Anche in questo caso attraverso quel libriccino, una “guida” di tutti gli animali e le creature del magico universo, il mondo di Harry Potter acquisisce contorni sempre più realistici. Nessuno leggerebbe una vera e propria enciclopedia di cose che non esistono, o no?

Le parole sono, per la mia opinione non tanto umile, la nostra fonte di magia più inesauribile, capace sia di ferire che di curare.

In ogni caso il successo è garantito proprio dal desiderio di immortalità che ogni fan desidera per la propria saga preferita. Questo è il cuore pulsante di ogni serie, che si tratti di televisione o libro. La fine porta con sé il desiderio di sapere sempre di più, ogni piccolo dettaglio dietro alla storia che tanto ha incantato diventa importante. Il rischio sempre presente è quello di mortificare l’opera originale che non insegue dichiaratamente il gusto di un pubblico già ben definito e noto ma che si manifesta in una naturalezza che si perde sempre con ogni prequel o sequel. Nel caso della serie spin-off di Animali Fantastici, in particolare, sembra quasi che l’intento principale sia dare risposta a tutte le domande rimaste (direi necessariamente) insolute con la prima saga. Il risultato è che la trama risulta particolarmente articolata e intricata per soddisfare la richiesta di spettacolarità del cinema. A soffrirne è principalmente la costruzione di quel quadro minuziosamente organizzato e pensato che ha fatto di Harry Potter un fenomeno globale che non teme il passare del tempo. Un universo immaginario la cui forza è di averci fatto credere che reale e magico coesistano perfettamente, illudendoci che, da un momento all’altro, potremmo davvero ricevere la lettera per Hogwarts.