Cura

Comincia il libro chiamato “Cura”, cognominato “tecum”, nel quale si contengono due novelle in due dì dette da una giovane donna e un giovane uomo.

Ogni relazione ha le proprie regole. Ogni San Valentino i propri riti.
Panfilo e Pampinea si accingevano a trascorrere il terzo San Valentino insieme. Decisero di intraprendere un rituale amoroso che sarebbe durato due giorni.
I due amanti fuggirono dall’odio, dall’ipocrisia e dalla mondanità, per segregarsi nel loro casale in campagna.
Ogni giornata era costellata di attività finalizzate ad unire la coppia; tuttavia l’evento cardine era la lettura di due antiche novelle, che si erano dedicati durante i primi mesi
d’innamoramento. Una prima lettura, però, perché i due avevano riposto i loro ardori in cadauna lettera di ciascuna parola, ma non avevano mai osato proferirle l’uno all’altro.
Infine il rituale prevedeva la bruciatura degli scritti e un lungo amplesso.

Giornata prima
Panfilo è uno studente universitario, che dall’università ha appreso come comunicare con il mondo che lo circonda. Panfilo è solito viaggiare, adora vivere nuove atmosfere e brama conoscere qualsiasi aspetto che la vita gli ponga davanti.
Panfilo affronta la quotidianità con vitalità ed entusiasmo, nonché il suo nome deriva dal greco e significa “tutto amore”.
Un amore globale che da anni ripone pienamente in Pampinea.

Erano le 9:00 di un 12 febbraio, il ragazzo si trovava nel suo casale in campagna da appena mezz’ora: con Pampinea avevano deciso di attuare un lungo rituale, lontano dalla corruzione urbana.
Il rito iniziale incominciò alle 9:01 del mattino: Panfilo e la sua amata giurarono sul “De Amore” di Andrea Cappellano che avrebbero portato a termine la liturgia senza mai varcare la soglia d’uscita.
In seguito stilarono gli scopi e il programma delle giornate.
Tra gli scopi annotarono: scoprirsi, spogliarsi, scoprirsi complici; accarezzarsi, curarsi, credersi; abbracciarsi, baciarsi, bilanciarsi; leccarsi, illimitarsi, delucidarsi; criticarsi, chiamarsi, cullarsi; penetrarsi, pulirsi, parlarsi; raccontarsi, rannicchiarsi, ridere; ardere, arrossire, arricchirsi…

Introduzione
Alle ore 12:00 Panfilo cucinò un prelibato pranzo a Pampinea, la quale alle ore 13:00 lo gradì.
Durante la digestione i due si scambiarono innocenti effusioni, ripercorrendo gli albori della loro storia d’amore.
Alle 15:30 scrissero su carta tre difetti di se stessi mai accettati. Si conobbero e si curarono.
Infissero i fogli sulla parete.
Alle 16:00 scrissero su carta tre difetti dell’altro mai accettati. Si accettarono e si
migliorarono. Infissero i fogli sulla parete.
Alle 16:30 scrissero su carta tre verità scomode mai metabolizzate. Si fidarono e si leccarono le ferite. Infissero i fogli sulla parete.
Alle 17:00 scrissero su carta tre bugie negate mai metabolizzate. Si criticarono, ma infine riscoprirono un nuovo equilibrio.
Dalle 17:30 alle 18:30 ballarono un silenzioso lento, sostenendosi con lo sguardo.
Dalle 18:30 alle 19:30 si immersero nell’acqua calda e profumata di una vasca accogliente.
Si accarezzarono, si abbracciarono e si inebriarono di aromi.
Alle 19:40 Panfilo preparò una deliziosa cena a tema “erotismo”. La preparazione e la seguente degustazione iniziarono i due amanti ad eccitanti sperimentazioni.
Alle 21:00 Panfilo introdusse la sua novella adolescenziale. Incominciò a leggerla con voce suadente e un particolare brillio negli occhi.

Novella prima
Malinconica. Luna era una ragazza malinconica.
Tramonto era un’isola. Di giorno il mare abbracciava la città e il sole l’accarezzava. Di notte il mare corteggiava la luna.
Luna aveva vent’anni, alta, bionda, occhi nocciola. Aspettava la laurea. Tutti i suoi parenti erano in fermento. Lei aspettava.
A Tramonto abitavano 2000 persone: 500 bambini, 700 malinconici, 600 tormentati e 200 poeti. Il tramonto abitava in 500 bambini, 700 malinconici, 600 tormentati e 200 poeti.
Tormentato. Jack era un ragazzo tormentato.
Tramonto era come mille occhi azzurri di bambini curiosi. Tramonto era come duecento stilo di poeti emotivi.
Jack aveva ventiquattro anni, alto, occhi verdi, capelli neri. Viaggiava sulla sua nave senza nome. I suoi parenti sapevano che non si sarebbe mai laureato. I suoi parenti non erano in fermento, erano preoccupati, perché lui viaggiava. Sempre. In qualsiasi condizione. A qualsiasi condizione.
Luna indossava un vestitino arancione, Jack un abito blu, Tramonto diverse sfumature di cielo.
La laurea in cosa? Neanche Luna lo sapeva. Aspettava.
In quali condizioni? Qualsiasi. Jack viaggiava.
Vento era un caffè vintage. Vento non era neanche vintage, non era mica tappezzato di quadri raffiguranti Marilyn Monroe, gli apparteneva soltanto un’atmosfera intrinseca, amplificata dal corno di un giradischi che cantava vecchi vinili. Un’atmosfera appartenente a tutti i malinconici, a tutti i poeti e a tutti i malinconici che tentavano di trasformarsi in poeti.
Un porto per tutti i tormentati che volevano scrivere le loro emozioni nero su bianco o soltanto ubriacarsi sui passi di James Brown. Una colazione per tutti i bambini che bevevano latte a tempo con Stevie Wonder.
Luna, ogni giorno, sedeva al solito tavolo di quel caffè, ordinava una tazza d’ispirazione e iniziava a creare pagine d’inchiostro, aspettando la laurea.
Jack non era mai entrato in quel caffè. Lui viaggiava. Sempre. Non si sapeva se fosse nato a Tramonto o in nave o lontano. Una cosa era sicura: lui era ovunque. Si potrebbe pensare che così facendo non fosse mai veramente da nessuna parte. No, lui era ovunque.
Una sera arrivò anche nell’apparentemente vintage caffè. Il vento richiamò a sé l’onda del mare. Il sole tramontava nella sola isola che avrebbe compreso quel dolcissimo lasciarsi andare. Magia che si diramava.
Jack si fece condurre dal Vento, come suo solito.
Entrò. Insolito. L’atmosfera gli indicò una ragazza seduta ad un tavolo, immersa nella sua ispirazione. Luna venne travolta da un profumo. Salsedine. La vita li travolse a mo’ di nuvole nel cielo, modellate dal vento.
Come un bimbo in spiaggia, che dopo aver rincorso il suo pallone gonfiabile trascinato dal vento, torna indietro, sorridente, aspettando che sia il pallone a rincorrere lui, Luna arrivò al bancone, vicino al nuovo arrivato.
e tornò sorridente indietro, aspettando il pallone, che, come il bimbo ha poi scoperto, non arrivò. Il tempo di uno scotch al gusto di una voce intensa e Jack riprese il viaggio sulla sua senza-nome.
Un solo incontro. Infiniti incontri fantasticati su carta.
Luna aveva trent’anni, alta, bionda, occhi nocciola. Non si era più laureata. Aspettava il matrimonio. Tutti i suoi parenti erano in fermento. Lei aspettava.
Jack aveva trentaquattro anni, alto, occhi verdi, capelli neri. Viaggiava sulla sua nave avente un nome. Lui era ovunque.
Ovunque c’era il mare, sempre, viaggiava. Di notte c’era la luna, sempre, immobile, incollata alla sua atmosfera. Il tramonto regalava loro la sua magia.
Il vento li faceva incontrare.
Con chi si sarebbe sposata? Neanche Luna lo sapeva. Aspettava.
A quali condizioni? Qualsiasi. Jack viaggiava.
Sempre.
Non si sapeva se fosse un marinaio senza ciurma o un pescatore o un pirata. Una cosa era sicura: il suo mozzo si chiamava fantasia.
Teneva in sospeso la realtà per poter viaggiare con l’immaginazione.
Il vento però richiamò a sé l’onda del mare.
L’ennesima condizione. Rischiosa. Troppo.
Luna aspettava…
Un solo incontro. Finiti incontri realizzati su nave. Jack era un marinaio senza ciurma. Io, una nave senza marinaio. Continuavo a viaggiare. Dentro il tramonto. Sola. Trainata dal vento. Portavo un nome. La mia meta? La Luna.
… aspettava una nave che non portava persone, bensì un nome: il suo.
Maledetta luna! Maledetto mare!
Jack tramontava a Tramonto.

Conclusione
Pampinea celò la propria commozione dietro un luminoso sorriso, prese il foglio scritto e lo baciò di un rossetto purpureo.
Panfilo annusò lo stampo pregno di desiderio, accese un fiammifero e dette fuoco alle parole che ardevano nel suo giovane animo.
Al lume della fiamma, i due corpi danzarono un suadente tango. Pampinea, vestita soltanto di un rosso tacco 12, sfiorò con il suo piede la gamba dell’amato, il quale la strinse a sé. A ritmo, la camicia di Panfilo venne sbottonata e la zip dei jeans abbassata… il ritmo si fece incalzante, la lingua del giovane percorse il collo della ragazza, mentre le dita di lei spinsero l’interruttore, la luce si spense e le mani si trasferirono altrove. Omnia vincit amor et nos cedamus amori.

Giornata Seconda
Pampinea è una studentessa universitaria, che dall’università ha accolto il senso di responsabilità e di condivisione. Ha compreso il significato delle radici e della fatica.
Pampinea studia lettere moderne e crede nel vigore del latino e dell’antico, incoraggia l’immortalità dei sentimenti, universali e senza tempo: l’amore di Dante per Beatrice commuove anche a distanza di secoli, perché tutti osserviamo il Paradiso negli occhi di un Panfilo, in qualsiasi epoca, a qualsiasi età.
Il nome della ragazza indica rigogliosità. La stessa che ripone in ogni sorriso rivolto a Panfilo.

Erano le 10:00 di un 13 febbraio, Pampinea si era appena svegliata accanto al suo amato: lo guardava, il suo viso era così roseo e riposato, le sue labbra sembravano iscriversi in un sorriso, che lei avrebbe voluto baciare. Tuttavia il primo bacio fu lanciato proprio da Panfilo, il quale con la coda dell’occhio notò la giovane in preda ad un’epifania: con un colpo di dolcezza la scosse, integrandola di nuovo nella realtà.
Iniziava un buon giorno.

Introduzione
Alle 10:30 Panfilo e Pampinea recitarono il “Canto V” dell’Inferno di Dante Alighieri. Nel II cerchio volavano le anime dei lussuriosi, di cui Paolo e Francesca si facevano portavoce:
Panfilo e Pampinea si dedicarono a eccitanti preliminari…
Alle 12:00 Pampinea preparò delle gustose pietanze, che alle 13:00 Panfilo degustò.
Durante la digestione Panfilo spazzolò i capelli di Pampinea ed insieme coltivarono un progetto di futuro.
Alle 15:30 scrissero su carta tre momenti di gelosia mai smussata. Si vergognarono, si limitarono, litigarono, strapparono i fogli e si allontanarono. La liturgia era in pausa.
Alle 17:00 Panfilo si sedette sul divano, accanto a Pampinea, e la strinse a sé, curandola dalle paure che l’attanagliavano. Lei lo accarezzò, rasserenandolo. Un lungo e passionale bacio firmò la pace.
Alle 17:30 alimentarono il fuoco del camino, con le carte appese al muro il giorno precedente e con i coriandoli dei fogli della discordia. Le fiamme li inglobarono.
Dalle 18:00 alle 19:30 Panfilo suonò una lieve litania e poi altre cento, mentre Pampinea ne intonava la melodia. Si sostennero sempre con lo sguardo, non avrebbero più ammesso una lontananza.
Alle 19:40 Pampinea compose degli ottimi piatti a tema “romanticismo”. Durante la cena, la dolcezza li pervase.
Alle 21:00 la giovane ragazza presentò il proprio racconto.

Novella seconda
Novembre continua incessantemente a cospargersi di nebbia, come se fosse ancora il 1925. Novembre, l’unico che cristallizzato non si lascia sconvolgere o mutare.
Nebbia come pensieri aggrovigliati. Nebbia come confusione.
Nebbia che scioglie il dissidio. Nebbia che chiede nebbia ma non vuole nebbia.
Stamattina mi sono svegliata, come di consueto, con accanto un libro da terminare, una matita per riempirlo di emozioni e quell’uomo imperfettamente perfetto, la cui mano ancora non si stanca di accarezzarmi ogni singola insicurezza.
Le lenzuola cingevano ogni piega del mio corpo, difendendomi da un’infernale quasi invernale giornata che eppur aveva l’obbligo e la presunzione di dover incominciare.
Il pavimento mi attendeva gelido, mentre lui baciandomi mi incoraggiò al buongiorno.
Mi alzai e pensai ai fabbisogni primari, quindi uscendo dal bagno, pulita e profumata, preparai il caffè, lo versai nelle tazzine insieme ad un goccio di latte, sia per me sia per lui ed infine spalmai della marmellata d’albicocca all’interno di entrambe le brioche, al fine di renderla meno infernale, quella giornata.
Al termine della colazione, scesi sino alla cassetta postale e risalii le scale, non proprio soddisfatta, con in mano le bollette da pagare. Ma solo dopo averle aperte una ad una mi resi conto che fra le tante cifre c’era una lettera spedita in un giorno diverso da uno qualunque dalla persona che non conosceva altrove.
La lessi, piansi all’interno della calligrafia ricordandomi che chi condusse la penna aveva il disonorato onore di poter vedere il mascara colato a cui nessun altro per fiducia o per orgoglio personale permettevo di struccare.
Allora presi il cellulare, composi il numero telefonico dell’ufficio in cui lavoravo ed avvisai che non sarei arrivata. La mano tremante stropicciava il foglio.
Anche lui avvisò che per imprevisti problemi non sarebbe potuto andare in ufficio quella mattinata. Inoltre prese le chiavi che avevo lasciato cadere sul tavolino di legno di ciliegio e con uno scatto repentino, quasi accennato della mano serrò la porta, come a voler lasciare il mondo fuori per comprendere quel mondo interiore il cui sbarcare era gesto valoroso quando non impossibile.
“Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde.” Chi lo disse conosceva l’essenza dell’imprevedibilità della vita!
Ci sedemmo intorno al tavolo tra le carte, con la lettera in mano, parlando di sentimenti e di ricordi che non sarebbero potuti morire per il solo motivo di essere esistiti e di non essersi mai eclissati.
Novembre, un nebbioso novembre di piena adolescenza. Ogni novembre ha una finestra che affaccia sull’orizzonte di nebbia, però, più dettagliatamente, la suddetta finestra lo faceva su un mare di nebbia… mare tormentato, forse non quanto Aña Maria che lo fissava amorevolmente e convulsamente dai vetri, in una postazione privilegiata.
Dialogarono come solo chi riesce a leggersi può fare…
Suo fratello rimase attratto dalla situazione, incompleta e confusa, come se la tragedia di Romeo e Giulietta si fosse di colpo intrecciata divenendo incomprensibile ai più, ma non a quei due, che con l’aiuto della nebbia scioglievano il dissidio nell’immensità del cielo.
Prese una tela e un pennello per immortalare e per completare ciò che a lui, come al resto del mondo, era negato. Lo scopo era rintracciare l’imperscrutabilità e dilaniarla. Non ci riuscì, la interpretò nei colori ma non la risolse. Ipotizzò un amore, suppose un addio.
Era un’analisi, era una crescita e poi sì, era anche amore, universale.
L’equazione rimarrà irrisolta per suo fratello, bensì una soluzione l’avesse ed i passaggi vennero scritti in una semplice lettera, a distanza di anni, in quanto la situazione ora era completa e disciolta da ogni confusione.
Il dialogo avveniva tra due anime tormentate, il tutto mitigato dalla nebbia che era attesa, che era la matematica che avrebbe risolto l’equazione, ma contemporaneamente faceva talmente paura la verità che si sperava in un suo divampare.
“Ci guardammo attraverso un vetro. Ci comprendemmo… avevamo troppe affinità per non farlo! Hemingway avrebbe detto che quel mare era donna, sì per me lo era, per me eri tu.
Parlavo con te, nel riflesso delle onde, perché non potevo farlo a voce, non ce ne era tempo, né coraggio. Mi immaginavo i tuoi lunghissimi capelli castani, i tuoi occhioni che mi fissavano, noi due a casa a scambiarci segreti e pareri, a piangere le prime delusioni e a brindare ai primi amori. Stavamo cambiando, ma non stavamo passando. Evolvevamo avendo paura di diventare Mr. Hyde e con la speranza di non morire dottor Jekyll.
Tremavamo al pensiero di vederci talmente diverse da non riconoscersi una dentro l’altra.
Se non si riconosce l’ancora, come si fa a sopravvivere?
Lo chiedevo al mare, perché lui, anzi lei, ne aveva viste molte di ancore e le aveva
inghiottite. Poteva rispondermi, era la sola d’altronde… non quel giorno però…era troppo tormentata… o forse lo ero io… o forse non accettavo la nebbia.
Poi accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde. No?
Stamattina mi ha risposto, sono passati anni. Ho accettato la nebbia.
Stamattina mi sono svegliata, come di consueto, con accanto un libro da terminare, una matita per riempirlo di emozioni e quell’uomo imperfettamente perfetto, la cui mano ancora non si stanca di accarezzarmi ogni singola insicurezza.
Al termine della colazione, mi affacciai dalla finestra, la stessa. Medesimo mare, mare di nebbia, mare tormentato. Mi richiamò e mi diede la risposta che mi diede la vita: ci saremmo riconosciute, diverse ma radicate nel passato e proiettate in un futuro. Brindisi e pianti continuano. Non termineranno. Sai perché? Perché le ancore affondano, non si limitano alla superficie, a loro importa la sabbia, non l’irrequietezza o la calma delle onde. Me lo raccontò il mare, dopo averle inghiottite… carichi di salvezza. Aña Maria”
Seduta su quel tavolo parlai al mio uomo della donna che mi aveva creduto mare e che ora mi rendeva nel segreto del mare. Gli parlai della veterana, che oggi aveva preferito un buongiorno diverso da quello sterile, ma pur sempre amato, tramite uno schermo.
Gli parlai delle radici.
Gli parlai di un amore che non ha sesso, che non ha attrazione, ma solo protezione: l’amicizia!

Conclusione
Il braccio di Panfilo cinse la vita di Pampinea, avvicinò la sua bocca all’orecchio dell’amata e le sussurrò parole di conforto, dal sapore di eternità.
Pampinea, allora, ebbe il coraggio di bruciare quei fogli, per lasciarsi andare con piena fiducia all’erotismo.
Panfilo portò il buio, dal quale i due amanti vennero avvolti. In seguito solo il tepore dei corpi, il suono degli ansimi e le grida degli orgasmi. Vinculum amoris est idem velle.

Giornata terza
“Due virgole di sperma sulla schiena” così cantavano i Baustelle in radio, alle 11:00 di un 14 febbraio. Pampinea e Panfilo erano in viaggio, il Maggiolino li portava altrove, nell’intima mondanità dei festeggiamenti di San Valentino.
Soltanto due ore prima si erano destati nel casale in campagna. Si erano stretti in una calda, ma felice, commozione.
Alle 9:30 misero fine al rito, ormai terminato nei suoi scopi e nel conteggio dei giorni.
Rilessero gli obiettivi, saldi nella loro rinnovata anima; baciarono il “De Amore” di Andrea Cappellano in segno di conclusione e di fedeltà. Prepararono le valige, pulirono e ordinarono il casale, chiusero le manopole dell’acqua e del gas e spensero la luce.
Caricarono i bagagli in macchina e si misero in viaggio.
Durante la guida, di volta in volta si sostenevano con gli occhi. Oculi sunt in amore duces.

Qui inizia la terza e ultima giornata del libro chiamato “Cura” cognominato “tecum”

Conclusione dell’autore
Ripongo ogni parola, con annesso significato, in “ciascun’alma presa e gentil core”.
I fedeli d’amore ripongono il loro sentimento in una persona o forse anche in più persone, non importa il sesso, la relazione, l’età o la taglia. L’amato può essere donna, uomo, oppure sentirsi solamente tale; può essere amore erotico, amicizia, amore paterno o amore materno; può essere nonna o figlia; può essere umano, animale domestico o animale selvaggio. Colui che ama può piangerne i dolori, può sospirare, può dilettarsi delle carni, può comprenderne la dolcezza, può credere nell’eternità, può crollare, può fare tutto ciò che “lor segnor, cioè Amore” comanda.
Ripongo ogni parola in voi non perché carica di qualche verità o bellezza, bensì perché Amore tiene “meo core in mano”. Solo voi, le potete capire.

Un albergo per amarti

“E infine alla mia adorata nipote Morgana lascio in eredità il 50% della proprietà dell’albergo “Le lancette”, l’altra metà la lascio al figlio del mio amico e fidato commercialista Carlo, il sig. Alex. L’albergo è inattivo da molti anni, tuttavia non dovrà essere venduto, il primo dei due beneficiari che avanzerà formale istanza di vendita del bene dovrà versare all’altro l’intero ammontare del valore del bene”.
“Cosa?” Esclamammo in coro io e Alex.
“È assurdo Sig. Notaio” protestai io. “La prego ci deve essere un modo per non far accadere tutto questo”.
“Già Sig. Notaio” fece eco Alex “io con questa tipa non voglio avere in comune neanche mezzo spillo.”
“Mi chiamo Morgana, tipa sarà tua sorella” esclamai io cercando di scatenare una lite furibonda davanti al funzionario.
Io e Alex ci odiavamo da anni, non era possibile avere quel lascito in comune, prima il notaio se ne sarebbe reso conto e prima avrebbe trovato un modo per liberarci da quel peso.
“Mi spiace Signori non è possibile fare niente, se rinunciate all’eredità ciascuno di voi dovrà versare al sottoscritto una penale pari al doppio del valore del bene, importo che sarà interamente devoluto ad alcune associazioni filantropiche di cui il defunto era un attivo benefattore”.
“Al diavolo,” sbottò Alex “io non voglio avere niente in comune con questa, quanto potrà mai essere questa penale? L’albergo è un rudere ed io ho qualche risparmio, se non bastasse sono disposto a chiedere un prestito, tutto pur di non dover dividere niente con lei, anzi ho già sopportato la sua schifosa presenza fin troppo!”
A quelle parole voltai lo sguardo per non mostrare i miei occhi lucidi mentre il notaio pronunciava la cifra di 1 milione e 200 mila euro, secondo la stima fatta da un perito.
“È tutta colpa tua” mi urlò Alex “Tu… tu… al diavolo! Ti aspetto domani alle 10 davanti a quell’albergo e vedi di esserci o vengo a prenderti a casa, così decidiamo cosa fare di quel rudere.” Poi sbatté la porta e se andò con passo furioso.
“In che guaio mi ha cacciato il mio prozio?” piansi davanti al notaio.
“Mi spiace non so che dire” rispose lui.
Me ne andai ferita e depressa; la rabbia di Alex nei miei confronti era stata una pugnalata al cuore. Ci detestavamo da anni sì ma da piccolissimi eravamo stati
grandi amici. Poi un giorno lui venne da me e mi diede un calcio nella milza, mentre io piangevo a terra lui fu raggiunto da un gruppo di ragazzi e se ne andò senza parlarmi più.
Da quel giorno mi fece i peggiori scherzi per farmi piangere, ed io imparai a reagire a mia volta con offese e silenzi. Finii la quinta elementare e me ne andai da quella scuola, lui continuò lì io per molto tempo non lo vidi, ma quando un’estate tornai a trovare il mio prozio, ci incontrammo davanti alla porta del suo studio.
Lo riconobbi a mala pena, era sempre stato carino da piccolo ma da grande era bellissimo, alto, castano, capelli medio lunghi e i suoi soliti occhi marrone verdi, che però non erano più affettuosi. Il mio cuore iniziò a battere all’impazzata ed arrossii vedendolo, ma sperai che lui non se ne accorgesse, era bello sì, e mi piaceva quel che vedevo in quel momento, ma il modo in cui mi aveva ferito era imperdonabile, per colpa sua ero lo zimbello della classe, non glielo avrei mai e poi mai perdonato.
“Morgana!” mi salutò lui a malapena quando mi vide.
“Alex!” risposi rabbiosamente io, mentre il mio cuore galoppava a più non posso nel petto.
Il mio prozio mi raccontava di lui, di quanto fosse bravo e studioso ma io o stavo zitta o lo interrompevo parlando di altro.
Dicevo che era morto e sepolto che lo odiavo e detestavo, ma avevo ancora nel portafoglio una nostra foto insieme durante una gita…
Gli avevo voluto bene da piccola, era stato il mio amico speciale, il mio confidente, il mio tutto, forse dopo quel fugace incontro stava diventando il mio primo amore.
Non parlargli più fu una delle perdite più dolorose che dovetti affrontare.
Il giorno dopo ci trovammo puntuali davanti all’albergo, aprii l’enorme cancello; e con un timore che in lui non pensavo avrei mai visto, entrammo.
L’albergo era davvero intatto, con le torrette che si stagliavano verso il cielo in perfetto stato, sembrava guardare con tristezza lo scorrere del tempo.
“Magnifico” dissi io col cuore in gola.
“Già” rispose Alex con un tono di apparente calma che non gli udivo da tanto.
Procedemmo nel giardino abbandonato notando come il tempo non avesse però danneggiato il suo ordine e la sua bellezza, le rose erano potate e curate, l’erba tagliata.
“Anche se era in disuso la manutenzione la faceva sempre fare” disse Alex con lo sguardo perso all’orizzonte.
“Io non lo sapevo…” mormorai.
“Per forza non sai niente; sei sparita! Te ne sei andata via senza salutare. Non hai mai messo più piede qui per anni se non qualche estate e adesso torni qui e senza aver fatto niente ti ritrovi una parte dell’albergo e la cosa mi manda in bestia…” Urlò lui. “Non è giusto ok? Non è giusto! Ero io che falciavo il prato d’estate per permettermi due spiccioli in più per non chiedere sempre a mio padre! Ero io che aprivo per dare aria alle stanze… Io non tu. Tu dov’eri eh? Dove!”
“Via! Ero via. Via perché papà ha avuto un trasferimento e ha deciso senza dirmi niente. Mi sono trovata catapultata su una macchina senza poter dire niente e se non ti ho salutato è perché tu mi hai trattato malissimo per tutto l’anno scolastico. Mi hai fatto piangere tutti i giorni, ti eri messo con quei ragazzi che mi prendevano in giro, quelli da cui prima mi difendevi, ridevi con loro di me. Mi hai fatto scivolare nel cesso, tirato i capelli, fatto lo sgambetto dalla sedia, e detto che ero la bambina più brutta che avessi mai visto e che giocavi con me solo perché ti facevo pena, ma malgrado tutto questo, mi è dispiaciuto andarmene senza salutarti, visto che io ti volevo bene, sei contento adesso?”
“Entriamo…” disse lui serio.
Aprii anche questa porta, piano, Alex trovò l’interruttore senza intoppi, poi andò ad aprire uno dei pesanti scuri e lascia entrare la luce del sole.
L’albergo era intatto, nessun mobile rovinato e i possenti arredi in stile anni 20 la facevano ancora da padrone. I ritratti erano scuriti da una patina di polvere e di fumo, ma alcuni volti erano ancora ben visibili, quello della mia prozia in primis.
La stanza che ci ha accolto: il salone, aveva ancora il pianoforte aperto col telo verde sopra i tasti, i divani erano coperti dai cellophane i lampadari se ripuliti sarebbero potuti tornare a splendere e ad illuminare a giorno il salone, e sull’enorme tavolo rotondo una scatola fiorita con un coperchio.
“Cos’è?” chiesi ad Alex curiosa…
“Io non lo so, l’ultima volta che sono venuto qui non c’era, guardiamo dai.” E di nuovo un tono calmo, quasi dolce; mentre la sua mano gentilmente mi spingeva per la schiena verso il tavolo.
La sensazione di caldo al contatto con la mia pelle mi mise i brividi, e con passo lento e tremante mi avvicinai alla scatola.
“Al mio tre?” mi chiese lui quasi sorridendomi.
“Come sempre” risposi sorridendo.
“Uno, due e tre” dicemmo in coro ed insieme aprimmo la scatola.
Quello che trovammo al suo interno si rivelò un colpo al cuore.
La scatola era piena di nostre foto, mie e di Alexander, che giocavamo da bambini nel giardino dell’albergo.
“Noi? Qui?” chiesi io.
“Già, non ricordi?” chiese lui guardandomi negli occhi con una luce nuova che non gli avevo mai visto.
“Io credo di aver dimenticato per non soffrire. Erano i nostri momenti belli e non volevo ripensarli mentre tu eri cattivo con me” risposi io.
“Scusami, io mi sono lasciato condizionare da quei ragazzi. Io volevo qualche amico in più sai, non al nostro livello di amicizia ma qualcuno con cui giocare quando tu non c’eri e loro sono arrivati e mi hanno detto che con le bambine non si gioca, che si prendono solo in giro ed allora per essere accettato da loro ho iniziato a comportarmi come loro, ma soffrivo anche io mentre lo facevo e dentro di me ti volevo ancora bene, anzi, penso di non aver mai smesso…”.
“Anche io ti volevo bene, Alex, tantissimo”.
“E adesso? Me ne vuoi ancora un po’ o mi odi e basta?” chiede lui piantando i suoi occhi verde/marrone nei miei.
“Io… Io te ne voglio ancora Alex, non ho mai smesso e mai smetterò” risposi, consapevole che avrei potuti scottarmi, consapevole che da quel giorno davanti allo studio di mio zio il mio cuore batteva per lui, consapevole che in quel momento, lui avrebbe potuto ferirmi con solo una parola o un gesto.
Ed invece, non sento altro che le sue labbra calde sulle mie, mentre le sue braccia mi stringono forte.
“Resta” mi chiese “Risistemiamo questo posto, non scappare, riproviamo, diamoci una chance, non vendiamolo”.
E fui io a baciarlo stavolta. Perché Alex per me era ed è sempre stato questo, la mia casa, il mio migliore amico, il mio tutto. Il mio amore.